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Questo articolo è stato pubblicato il 11 aprile 2012 alle ore 08:29.
L'ultima modifica è del 11 aprile 2012 alle ore 08:29.

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Sullo schermo dell'economia mondiale scorrono due film. Uno è ambientato in Europa e descrive un continente in crisi: il "ventre molle" dell'euro - la discrasia fra una politica monetaria unica e gestioni nazionali del debito e dei conti pubblici - riceve i colpi bassi dei mercati e continuerà ad agitare le acque finquando non sia risolta questa schizofrenia istituzionale. Ma non bisogna trattenere il respiro: la svolta non è dietro l'angolo. I rimedi risolutivi - una mutualizzazione dell'"eurodebito", un impegno della Bce a contenere gli spread entro limiti certi, un allargamento massiccio dei programmi di acquisto di titoli - costituiscono misure rivoluzionarie che, per quanto intellettualmente difendibili, richiedono tuttavia cambiamenti di Dna, più che cambiamenti di opinioni. E i primi sono molto più difficili dei secondi.
Molti commentatori prendono a partito le posizioni tedesche, come se si trattasse di far cambiare loro opinione. Ma quel che deve cambiare non sono le opinioni ma le pulsioni. I tedeschi continueranno a tenere l'economia europea sull'orlo del precipizio, malgrado le dolorose misure di austerità già prese in Italia e altrove, perché i rimedi risolutivi sono troppo estranei al loro modo di pensare e troppo evocativi di quell'inflazione di cui hanno sofferto nel lontano passato ma che è oggi solo una "tigre di carta".

Il secondo film è più consolante, e descrive quel che succede nella struttura reale più che nella sovrastruttura finanziaria. È ambientato nel resto del mondo - America, Giappone, Paesi emergenti - e segue le correnti profonde dell'economia, quelle che determinano, malgrado tutto e contro tutto, la crescita dei redditi e dell'occupazione. Il rimbalzo delle economie dopo la Grande recessione è stato interrotto l'anno scorso dalla crisi dei debiti sovrani in Europa. Una crisi che sembrava attenuarsi un mese fa, ma che sta subendo una nuova recrudescenza, dato che i "rimedi risolutivi" sono ancora lontani. Tuttavia, vi sono chiari segnali che fuori d'Europa la crisi sta lasciando il posto alla ripresa. In America, dove i reggitori della politica economica non soffrono dei patemi tedeschi, l'economia ha rialzato la testa. In Giappone la ricostruzione dopo i disastri naturali di un anno fa sta spingendo l'attività, e negli emergenti, a cominciare dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) il rallentamento cui abbiamo assistito è solo una pausa nella crescita, come suggeriscono (vedi grafico) gli indicatori avanzati dell'Ocse rilasciati ieri.

E l'Italia? Il nostro Paese non merita ma subisce i colpi di coda dei mercati. Le tensioni rispondono ai problemi irrisolti della governance europea, ma la nostra nomea di "vaso di coccio" basta e avanza per piegare un'economia che è già indebolita dall'inevitabile ondata di austerità che ci è imposta dagli impegni europei. Questi impegni sono una medicina più che una punizione, ma è indubbio che nel breve periodo, come succede spesso con le medicine, ci faranno soffrire. Non abbiamo oggi le forze per poterci sollevare contando sulla domanda interna: questa è debole e rimarrà tale. Ragione in più per affidarci alla domanda estera: è la nostra sola speranza per limitare i danni, e da questo punto di vista le prospettive dei mercati di sbocco per le nostre esportazioni ci stanno dando una mano. Storicamente i nostri esportatori sono sempre stati lesti nello spostare le vendite verso i mercati che tirano: una flessibilità che altri Paesi, più dipendenti dall'export verso l'Europa, ci invidiano.
Non sarebbe la prima volta che abbiamo dovuto affidarci alla domanda estera per tirarci fuori dalle secche della stagnazione. Ma è la prima volta che questo "tirarci fuori" è drammaticamente urgente, in un Paese stanco di crisi, rigato da disoccupazione crescente e squassato dagli umori dell'antipolitica.

fabrizio@bigpond.net.au

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