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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2012 alle ore 19:18.

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L'emiro Khalifa al Thani del Qatar, dove i talebani stanno aprendo una rappresentanza, è stato esplicito nella sua missione italiana: se gli americani vogliono un accordo politico devono trattare con l'ala dura e rinunciare a tenere in sella Hamid Karzai dopo il 2014, fatidica data del ritiro occidentale. In sintesi la storia è questa: per evitare che Kabul diventi la replica di Saigon la chiave è il Pakistan, che ospita i santuari della guerriglia e ritiene l'Afghanistan una componente irrinunciabile della sua "profondità strategica".

È il nodo gordiano dell'Af-Pak: chi lo scioglie o lo taglia avrà come Alessandro il potere in Asia. Il problema è che il Pakistan ha due volti. Uno è quello del presidente Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto assassinata nel 2007, e del governo civile del primo ministro Yousuf Gilani, sotto pressione perenne dei militari. L'altro è il Pakistan dei generali dell'Isi, l'intelligence militare, il vero governo "ombra" che ha comandato per tre quarti della storia di un Paese nato dalla partizione dell'India britannica nel 1947. L'Isi, di cui è stato cambiato in marzo il capo, ha foraggiato dall'inizio i talebani e protetto i gruppi della Jihad sia in Afghanistan che nel Kashmir conteso agli indiani.

Questi due volti del Pakistan diventano uno solo quando si tratta di fronteggiare l'America, ancora più impopolare da quando l'anno scorso ha ucciso Bin Laden ad Abbottabad con un'operazione ritenuta "umiliante" per il prestigio del paese. Il parlamento di Islamabad, con un'unanimità assai rara, ha appena votato un documento vincolante per il governo: chiede che gli americani cancellino i raid aerei nel Nord del Waziristan con i droni, gli aerei senza pilota, e in cambio il Pakistan permetterà la ripresa dei rifornimenti della Nato verso l'Afghanistan, bloccati da mesi. In poche parole: gli Usa devono rinunciare alla guerra nelle aree tribali altrimenti Islamabad continuerà a sabotare l'Alleanza atlantica. Non male per un Paese che riceve da Washington alcuni miliardi di dollari l'anno e viene citato come uno degli alleati strategici di Washington.

Il Pakistan è una potenza nucleare sunnita fuori controllo e costituisce per l'America un problema ancora maggiore dell'Iran degli ayatollah sciiti. Non lo si deve dire troppo apertamente per non irritare anche le petro-monarchie del Golfo, tra i maggiori finanziatori dei gruppi islamici, diventate importanti perché si atteggiano a portabandiera dei movimenti della primavera araba e allargano i cordoni della borsa pure in Occidente: ma a casa loro, ovviamente, non aprono neppure uno spiraglio alla democrazia.

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