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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2012 alle ore 09:09.
L'ultima modifica è del 16 aprile 2012 alle ore 09:11.

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Nessuno può e deve permettersi di minimizzare l'importanza del decreto "salva-Italia". Erano settimane cariche di ansia quelle d'autunno e la tenuta del Paese era a rischio. Il carico di nuove imposte che quel provvedimento imponeva era giustificato dall'emergenza. Ed è soprattutto così che è stato possibile invertire un percorso che stava portando l'Italia verso esiti disastrosi.

Il merito, e la credibilità, di quel decreto erano però anche in altro. In due interventi marginali, ma in realtà fondamentali per il messaggio che contenevano. Il primo era la riduzione, seppur minima, dell'Irap che grava sul lavoro; il secondo l'introduzione della cosiddetta Ace (Allowance for corporate equity), che dà vantaggi fiscali alle imprese che si ricapitalizzano. Il Governo sembrava dire: l'emergenza ci impone di alzare la pressione fiscale complessiva, ma sin da ora assicuriamo che la nostra intenzione è ridurre il peso del fisco, almeno sul lavoro e sulle imprese.

Monti lo disse anche espressamente: sarebbero stati i tagli di spesa, che non erano fattibili nei tempi brevi di qualche settimana, a finanziare presto il risanamento italiano. Quelle due bandierine sull'Irap e sull'Ace - almeno nelle speranze nel momento dei sacrifici - sarebbero presto diventate qualcosa di più: una riduzione percepibile del cosiddetto cuneo fiscale, finanziata attraverso i tagli di spesa, tale da dare per davvero una nuova energia di crescita all'asfittico Pil italiano.

In questi mesi l'attesa è rimasta attesa. E si sono invece moltiplicati i segnali contrari. L'elaborazione effettuata dal Sole 24 Ore in queste pagine segnala come le imposte, e le tariffe, sono continuate ad aumentare, fino a gravare su una famiglia media circa 1.500 euro in più all'anno. Aumenta intanto il prelievo contributivo sulle imprese per finanziare la riforma del mercato del lavoro. Aumentano i balzelli sui biglietti aerei, così come il prelievo sulle case in affitto. Aumenta, soprattutto, ancora una volta, l'accise sulla benzina.

Tutto noto, tutto già visto. Sono tanti i meriti del governo dei tecnici - la credibilità restituita all'Italia, una robusta (seppur con qualche messa a punto necessaria) riforma delle pensioni, le liberalizzazioni, le semplificazioni, la lotta all'evasione fiscale -, ma sulla pressione tributaria finora non c'è quel segnale che ci si attendeva.

Nessuno può essere oggi così ingenuo, e anche irresponsabile, da caldeggiare una riduzione dei carichi fiscali al costo di un indebolimento della politica del rigore. L'Italia non se lo può permettere. E le tensioni sullo spread che continuano sono lì a testimoniarlo. Ma dalle competenze e dalla serietà di questa compagine governativa era giusto, ed è ancora giusto, attendersi un approccio nuovo e virtuoso nella riduzione della spesa corrente, che è l'unica strada per far coesistere meno tasse e più rigore, più crescita e più stabilità finanziaria.

Il Regno Unito è riuscito a realizzare, attraverso la spending review, riduzioni di spesa per decine di miliardi di sterline all'anno nell'ultimo decennio. È quella la strada da seguire. E non può valere l'obiezione che i tagli di spesa comportano inevitabilmente una riduzione dei consumi interni e, quindi, meno crescita. Non può valere perché tagli di spesa ben fatti, mirati, non ottusamente orizzontali, possono e devono andare a individuare con precisione le spese che impattano meno sulla crescita e i veri e propri sprechi (i recenti scandali sulla sanità, per dirne una, offrono qualche utile spunto). Così operando il trade off che si verrà a determinare con equivalenti riduzioni di pressione fiscale potrà portare energia e munizioni al rilancio necessario della crescita economica.

Molte altre strade per unire sviluppo e rigore non ce ne sono. Vale la pena tentare.

twitter@fabrizioforquet
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