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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2012 alle ore 19:17.

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Finora la Difesa e lo stesso ministro Giampaolo Di Paola non si sono fatti sfuggire nessun dettaglio circa i piani di progressivo disimpegno militare dall'Afghanistan. Se Washington, Londra e Parigi non hanno mai nascosto all'opinione pubblica il numero di militari che verranno ritirati nei prossimi 12/18 mesi, da Roma è emerso solo un generico impegno a mantenere per buona parte di quest'anno gli organici attuali, 4.200 militari schierati in Afghanistan Occidentale al costo di circa 750 milioni di euro per l'intero 2012.

A far luce sui piani italiani ha provveduto un documentato articolo di Lao Petrilli sulla Stampa, nel quale una fonte della Difesa spiega che devono essere «sincronizzati con i programmi dei comandi alleati», un aspetto fondamentale non solo sul piano politico ma anche su quello operativo poiché in molti settori interi reparti e basi avanzate non possono restare se vengono ritirati i mezzi aerei e logistici che forniscono loro appoggio e rifornimenti. Il primo settore a venire abbandonato dagli italiani, secondo quanto riportato da La Stampa, sarà quello settentrionale di Bala Murghab incentrato sulla base Columbus con 450 italiani, 150 americani e 300 soldati e poliziotti afghani disseminati su una trentina di avamposti lungo la valle.

L'intera struttura difensiva, protetta oggi dai mortai da 120 millimetri e da una coppia di elicotteri d'attacco Mangusta schierati nella vicina base spagnola di Qal-i-Now verrà ceduta agli afghani probabilmente in settembre, consentendo all'Italia di rimpatriare una delle quattro task force da combattimento schierate in Afghanistan. I militari rientreranno in patria in aereo, i mezzi quasi certamente sui treni che attraverseranno le repubbliche ex sovietiche e la Russia, considerato che il passaggio dal Pakistan è ancora bloccato dal Governo di Islamabad. Il battaglione di truppe afghane schierato su quelle montagne non ha però nessuna possibilità di difendere Bala Murghab senza gli italiani.
Con pochi pezzi d'artiglieria, privi di radar campali e di elicotteri (in tutto l'ovest le forze afghane dispongono di 5 elicotteri Mi -17) e con pochi veicoli peraltro privi di protezione contro gli ordigni improvvisati, soldati e poliziotti afghani dovranno affrontare le bande talebane, di narcos e contrabbandieri attivi lungo il confine con il Turkmenistan e che hanno le loro basi più a nord, nel settore di Ghormac.

Bala Murghab venne espugnata dai fanti aeromobili del 66° reggimento "Trieste" il 2 agosto 2008 e da allora i diversi contingenti italiani succedutisi hanno allargato la "bolla di sicurezza" oggi abitata da oltre 20 mila persone che potrebbero fuggire di nuovo dalle loro case se venisse meno quella sicurezza che le truppe di Kabul, anche se avessero la volontà, non avrebbero comunque i mezzi per garantire. La guarnigione afghana rischierà inoltre di venire tagliata fuori dalle sue linee di rifornimento, cioè dall'impervia strada che conduce a Qal-i-Now e a Herat, che in quel tratto di montagna è facile da interrompere con attentati dinamitardi e imboscate.
In ottobre gli italiani ritireranno anche i due avamposti in Gulistan ("Snow" e "Ice") nell'est della provincia di Farah. Certamente l'area più difficile dell'intero settore Ovest, nella quale gli italiani hanno sofferto le perdite maggiori.

I circa 200 militari che li presidiano raggiungeranno Bakwa, più a ovest, lasciando in Gulistan poche decine di soldati e poliziotti afghani privi anche qui di elicotteri e veicoli protetti, che non hanno nessuna speranza di cavarsela contro le superiori forze talebane che controllano quasi tutti i villaggi e finora sono riusciti a contrastare i movimenti stradali anche delle forze italiane. La fonte citata dalla Stampa precisa che gli statunitensi vorrebbero anticipare di qualche settimana il ritiro italiano dal Gulistan. Il motivo potrebbe essere in relazione al progressivo disimpegno americano dal vicino settore Sud-Ovest e soprattutto dalla base di Delaram i cui elicotteri sono spesso intervenuti in soccorso e in appoggio ai presidi italiani.

Gli insorti potranno spacciare il ritiro italiano come una grande vittoria contro la Nato che in tre anni di presidio (prima i georgiani poi gli italiani) non sono riusciti ad acquisire il controllo del territorio né a garantirne la sicurezza. Fonti militari, non solo italiane, hanno ammesso che «è già successo e potrebbe accadere di nuovo» che si restituiscano agli afghani distretti in cui, in realtà, le forze locali non sono pronte a garantire la sicurezza secondo gli standard predeterminati ma evidentemente l'unica cosa che conta, per tutti gli alleati, è andarsene in fretta.

Nella primavera 2013 anche la task force di Bakwa verrà ritirata lasciando i distretti orientali di Farah nelle mani di uno scarno battaglione afghano e alla fine dell'anno verrà ritirato anche la Task force South basata a Farah City e dimezzata la TF Center di Shindand. In pratica all'inizio del 2014 gli italiani manterranno unità sufficienti alla sola sicurezza della base di Camp Arena, sede del comando alleato all'aeroporto di Herat. A metà del 2014, secondo la ricostruzione della Stampa, resteranno in Afghanistan circa 2 mila militari italiani la metà di oggi ma con capacità operative sul terreno limitate a forze speciali, alcuni elicotteri e piccoli reparti di fanteria. Entro la fine dell'anno dovrebbero restare a Herat non più di 800/1000 soldati con compiti di supporto logistico e addestramento delle forze afghane con una spesa annua stimata in 200 milioni di euro, circa un quarto della spesa attuale.

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