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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2012 alle ore 10:30.
L'ultima modifica è del 01 maggio 2012 alle ore 06:36.

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Se vogliamo che servano i tagli di spesa non potranno essere un pasto gratis. Lo Stato Italia ha vissuto in questi decenni – almeno dagli anni Settanta – al di sopra delle proprie possibilità. La spesa pubblica è stato il più facile, e illusorio, degli ammortizzatori sociali.

E anche negli anni di risanamento la politica non ha rinunciato ad utilizzarne le leve per garantirsi consensi e rinviare le riforme necessarie: ecco allora che la spesa ha raggiunto la cifra "monstre" di 800 miliardi, aumentando in dieci anni di 150 miliardi.
La crisi dell'euro e la recessione hanno suonato la campanella. Non solo i tagli prospettati dal Governo sono necessari, ma andranno operati con rapidità e incisività ancora maggiori di quanto finora delineato. La preoccupazione dei partiti è comprensibile, ma le riduzioni di spesa dovranno essere consistenti e rapide. Solo se saranno tali, infatti, si può immaginare un altrettanto rapido riorientamento delle risorse che si renderanno disponibili in funzione della crescita.

Non basta sventare il prospettato aumento dell'Iva, servirà un segnale forte sulla pressione fiscale che oggi grava sul lavoro, sulle imprese e sulle famiglie che più sono in difficoltà.
Non è con la timidezza che si conquisterà consenso sociale intorno ai tagli. La chiave è un trade off chiaro e visibile. Il Paese, i suoi imprenditori, le famiglie, i lavoratori, sono allo stremo. Il saldo finale dell'operazione dovrà servire a fare crescita, a liberare opportunità, a dare ossigeno a chi respiro non ne ha più.
I tagli, insomma, avranno successo se non saranno solo tagli. Padoa-Schioppa diceva che non è, quella della spending review, un'operazione per gli «arditi della sciabola». Il suo non era un invito a non fare tagli consistenti. Al contrario: era un invito all'ambizione, a fare dei tagli un cambio di paradigma.

Nel Regno Unito l'operazione spending review ha messo nel mirino 20 miliardi di spesa all'anno. Monti, i suoi tecnici, il commissario straordinario – ben venga, purché non sia un alibi per non prendersi le necessarie responsabilità politiche – farebbero bene a puntare a un obiettivo altrettanto ambizioso. Qui non si tratta di tagliare qualche miliardo, ma di avviare una riforma strutturale dell'economia italiana, dando più qualità alla spesa, liberando risorse per ridurre la pressione fiscale, prospettando una dislocazione delle risorse complessivamente più orientata a premiare qualità e merito.
In un mondo che si è aperto, il vecchio modello italiano di economia chiusa e assistita va superato e, senza rinunciare ai suoi aspetti positivi di solidarietà e protezione sociale, va sostituito con modelli più dinamici, dove la concorrenza, il merito, l'innovazione trovino davvero la possibilità di essere praticati e premiati.

Non è più tempo per una pubblica amministrazione che premia in termini di potere i dirigenti che spendono di più, non è tempo di impiegati pubblici umiliati dagli scatti automatici a prescindere dal merito, di università che si rincorrono nella moltiplicazione delle cattedre utile solo al barone di turno, di una sanità che – non solo al Sud – si è trasformata, nella moltiplicazione dei costi, in terreno di pascolo di politici e amministratori. Non è più tempo neppure per quelle imprese che, imbolsite da incentivi e tolleranza verso il sommerso, rinunciano a innovare e a cercare nella qualità le ragioni della loro competitività.
Non è più tempo. Per questo la spending review è una grande opportunità. Sarebbe imperdonabile se venisse sprecata per una ipocrita difesa, da parte del Governo e dei partiti, di questa o quella categoria. La cattiva spesa non difende nessuno. Tranne forse una politica debole che ha ancora bisogno di intermediare e dare le carte. Il Paese, le sue famiglie e le sue imprese hanno bisogno di altro.

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