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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2012 alle ore 14:29.
Esistono oggi alcuni “credo”, a matrice quasi religiosa, che governano il mondo e che hanno i loro devoti sacerdoti, i quali anche di fronte alle evidenze contrarie dell'attuale depressione economica, continuano a predicarne le virtù. Tra questi quello più fallimentare, come ormai è noto, è il credo del libero mercato che si autoregola, e della selvaggia deregolamentazione della finanza collegata alla speculazione.
La teologia degli economisti, che ben tollera i paradossi, va ora coniugando austerità e crescita, pur dopo aver incautamente sostenuto che anche dalla sola austerità e dal rigore può nascere la crescita. Mi perdonerà il lettore se, annoiato da queste teologie, mi prendo la libertà di definire i due ultimi termini, che paradossalmente si vogliono accomunare, chiamando in causa il divino Nicolò Cusano, come un caso tipico di «coincidentia oppositorum», cioè la coincidenza degli opposti. Questa in sé e per sé si rivela ben lungi dal risolvere i problemi economici, politici e sociali che travagliano il mondo. E rischia invero di peggiorare ulteriormente la situazione attuale che continua ad avvitarsi su se stessa.
Non è allora il caso di continuare ad attribuire la colpa ad altri, come si fa in Europa con la Grecia ed ora anche Barack Obama con l'Europa, laddove quel che succede nel mondo è dovuto soprattutto alla speculazione finanziaria, le cui istituzioni portanti non sono ancora state messe in discussione e continuano ad essere protette coi denari dei contribuenti dal «nuovo capitalismo di Stato», come l'ha definito Eric Hobsbawm. Preliminare ad ogni programma di crescita è allora una seria riforma del capitalismo finanziario, così come fece il New Deal dopo la grande depressione del 1929. Ma purtroppo di F.D. Roosevelt non mi pare di riscontrarne nessuno fra i leader politici mondiali. Mi basterà allora un esempio, fra i tanti che si potrebbero fare, che riguarda il cuore e la natura intima della globalizzazione finanziaria, all'origine delle sempre più gravi diseguaglianze mondiali.
Il riferimento che intendo fare è specifico, ma parte comunque da uno degli strumenti che ancora godono della massima libertà e mancanza di regolamentazione, i cosiddetti “derivati”. Si tratta, come è noto, di prodotti il cui valore è “derivato” da un bene sottostante, che può essere qualunque cosa. Ora, selvaggiamente liberalizzati negli Stati Uniti, sono vere e proprie “scommesse”, rese esplosive dalla rivoluzione digitale. Questa ha dato la possibilità di creare velocemente una massa enorme di denaro virtuale, che dalla tecnologia solo dipende.
Si è così verificato, proprio per questa rivoluzione digitale, un fatto nuovo, che viene sbandierato come il “contagio” fra un paese e l'altro, cioè una sorta di peste finanziaria quasi incurabile.
I derivati, da strumenti di copertura del rischio, si sono trasformati in un gioco da casinò, e il loro valore si attesta a varie volte il Pil del mondo, senza alcun riferimento all'economia reale, sicché vale sempre di più la nota battuta di John Maynard Keynes: «quando l'economia (…) è ridotta a un casinò vuol dire che le cose non vanno affatto bene».
I derivati sono anche pericolosamente approdati oltre che alle fonti di energia come il petrolio, ai prodotti alimentari, caffè, mais, bestiame, soia, olio, farina, e la speculazione da parte degli operatori finanziari ha fatto aumentare il prezzo dei beni sottostanti, cioè del cibo che noi tutti consumiamo e il cui costo è ormai solo in parte determinato dall'andamento dei raccolti, ma principalmente dai derivati.
La volatilità dei prezzi degli alimentari sta preoccupando molto la Fao per le conseguenze che può avere sulla fame nel mondo, perché non sono più gli agricoltori a fissare il prezzo degli alimenti, ma i banchieri. E i Paesi poveri vanno alla fame mentre le istituzioni finanziarie continuano ad arricchirsi.
È pur vero che il Parlamento Europeo il 29 marzo 2012 ha espresso parere favorevole su una Proposta di Regolamento dei derivati, ma la strada da compiere è ancora molto lunga. E il vero problema riguarda soprattutto gli Stati Uniti, che pur stanno studiando, ma son ben lungi (chissà perché) dall'approdare a qualche soluzione concreta.
In conclusione, solo una grande riforma del capitalismo finanziario potrà evitare che dalla “coincidentia oppositorum” le disuguaglianze interne e globali aumentino a dismisura.
Non si tratta ovviamente di demonizzare la finanza, che pure nel mercato ha una sua straordinaria funzione, come dimostra con dovizia di argomentazioni il recentissimo libro di Robert J. Shiller "Finance and the Good Society", bensì di evitare che essa, al di là e al di fuori degli Stati, continui a produrre un'enorme ricchezza di denaro virtuale, l'incredibile contagio e la peste finanziaria fino a diventare, dopo aver soggiogato il potere degli Stati, l'unica sovrana della globalizzazione.
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