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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2012 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 23 maggio 2012 alle ore 07:20.

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Cosa fare per evitare che la crisi della Grecia travolga la moneta unica? Questa domanda sarà al centro dell'incontro informale dei capi di Stato e di governo dell'Eurozona in programma oggi a Bruxelles. L'incontro consentirà passi avanti solo se prenderà atto di due aspetti della realtà economica.

Primo, il programma di prestiti triennali della Bce alle banche europee, anche se necessario per allentare la stretta sulla liquidità delle banche, non è bastato a far rientrare la crisi di fiducia. La ragione era chiara fin dall'inizio. La crisi dell'euro è innanzitutto una crisi del debito sovrano. Spingere le banche a usare i finanziamenti della Bce per acquistare il debito pubblico del proprio paese, come è stato fatto in Italia e Spagna, è controproducente, sia perché rende il sistema bancario ancora più fragile, sia perché mantiene la stretta creditizia sull'economia reale.

Secondo, con il passare del tempo la crisi di fiducia si aggrava anziché migliorare. Inizialmente vi era la speranza che il tempo sarebbe stato alleato: con più tempo a disposizione, le economie del Sud Europa avrebbero potuto attuare le riforme necessarie, e riacquistare credibilità. Le riforme sono state avviate (anche se non sempre in misura adeguata), ma si è anche accentuata la ri-nazionalizzazione del sistema finanziario europeo. Ciò contribuisce ad aggravare la crisi, perché man mano che si riduce l'integrazione finanziaria tra i Paesi dell'euro, diminuisce il costo di smontare la moneta unica. Nonostante le riforme, ogni giorno che passa l'Eurozona assomiglia sempre di più a un regime a cambi fissi che sta per crollare, anziché ad un sistema sorretto da una moneta unica.

Prendere atto della realtà economica è necessario per impostare in modo corretto l'uscita dalla crisi. Dal punto di vista tecnico, gli strumenti non mancano. I passi da compiere sono noti, e sono stati ripetutamente indicati nel dibattito europeo.

Innanzitutto, occorre interrompere la spirale avversa con cui la depressione peggiora i conti pubblici e l'austerità fiscale aggrava la depressione. Questo vuol dire sostenere la domanda aggregata nei paesi del Sud Europa, per uscire da una classica depressione keynesiana di carenza di domanda effettiva. Più che rilanciare gli investimenti pubblici (in Spagna e Portogallo vi sono stati fin troppi investimenti in infrastrutture), occorre evitare di recuperare eventuali sconfinamenti rispetto agli obiettivi di bilancio dovuti alla congiuntura avversa, come già previsto dagli accordi europei, e accelerare i pagamenti al settore privato per allentare la stretta creditizia. Ma il compito principale spetta alla politica monetaria, che deve influire anche sulle aspettative. La Bce dovrebbe portare i tassi di interesse a zero, indicando con le parole e con le azioni che la politica monetaria resterà espansiva a lungo, che l'inflazione è l'ultima delle preoccupazioni, e che un euro più debole nei confronti delle altre valute sarebbe più che giustificato dalle circostanze attuali.

In secondo luogo, occorre tagliare il legame tra la crisi del debito sovrano e la crisi bancaria nei paesi del Sud Europa. Ciò impone di agire su due fronti. Da un lato, gli effetti di eventuali crisi bancarie non devono mettere a repentaglio i conti pubblici di singoli paesi, come è invece accaduto in Irlanda e sta accadendo in Spagna. Quindi, occorre affrettarsi a ricapitalizzare le banche direttamente con le risorse dell'Esm, e creare un sistema di assicurazione dei depositi alimentato da risorse europee e sotto la diretta supervisione di autorità europee. Dall'altro, la crisi del debito sovrano non deve affondare i bilanci delle banche, come sta accadendo in Spagna e Italia. Questo obiettivo può essere raggiunto in tempi brevi solo tramite la politica monetaria. La Bce deve annunciare un esteso programma di acquisto del debito dei paesi in difficoltà (in particolare di Spagna e Italia, perché Portogallo e Irlanda per ora non devono finanziarsi sul mercato). Per evitare di concentrare il rischio di credito sui titoli che rimangono in circolazione, la Bce dovrebbe anche chiarire che non intende avvalersi dello status di creditore privilegiato rispetto al mercato. La consapevolezza che anche gli stati dell'area euro possono avvalersi di un prestatore di ultima istanza, come di fatto accade in situazioni estreme negli altri paesi avanzati, darebbe un contributo importante per riportare la fiducia nei paesi del Sud Europa.

Una banca centrale indipendente come la Bce ha non solo la possibilità, ma forse anche l'obbligo, di fare tutto il possibile per evitare che la crisi di fiducia finisca col travolgere la moneta unica. È chiaro tuttavia che queste azioni comporterebbero una redistribuzione di rischi e risorse tra paesi che va ben oltre ciò che era stato pattuito alla nascita dell'euro. Esse andrebbero dunque accompagnate da un nuovo progetto di effettiva integrazione politica, e non più solo economica.

È difficile dire se l'Europa sia pronta ora a un passaggio così delicato. Gli scettici avrebbero ragione a sottolineare che l'Europa ha già avuto troppa fretta una prima volta, quando ha creato la moneta unica senza rendersi ben conto di tutte le implicazioni di quanto stava facendo. Ora rischia di fare un secondo salto avanti, ancora più grande e con ancora maggiore precipitazione.

Quello che possiamo dire è che questo passaggio è ineludibile, se non vogliamo rinunciare alla moneta unica. Se non siamo disposti ad affrontare ora la questione, saremo costretti a farlo tra qualche mese, quando la situazione economica sarà diventata ancora più difficile.

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