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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2012 alle ore 07:36.

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Un allarme rosso può anche rientrare, ma la pre-condizione che questo avvenga sta nel fatto che sia oggettivamente considerato come tale. Fino in fondo, senza provare a derubricarlo ad un "monito" tra i tanti.
Oggi la condizione dell'Italia è da allarme rosso. Non è quello che detonò (allora a colpi devastanti di spread) nel novembre scorso ma la situazione è comunque grave e insidiosa, e non inganni il saliscendi giornaliero delle Borse e degli spread (che resta molto alto e ben oltre la soglia di guardia). L'intera costruzione europea scricchiola, e non sarà la liquidità a tre mesi assicurata dalla Bce alle banche per il 2012, né la polemica transatlantica tra Europa e Usa sull'attestazione delle colpe, a determinare una svolta. Svolta che necessita piuttosto di quella ferrea volontà politica comune ancora in lista d'attesa a Bruxelles dopo i ritardi e gli errori sulla Grecia.

Quanto all'Italia, un terremoto che ha seminato vittime e danni per oltre 4 miliardi, ha messo in ginocchio un'area che significa l'1% del Prodotto interno lordo nazionale ed un gettito fiscale annuo di 6-7 miliardi. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha spiegato che il fermo produttivo potrebbe durare 4, 6 mesi. Il che vorrebbe dire un'ulteriore caduta del Pil oltre quella già preventivata.

Il Paese ha il fiato corto, pressato com'è dal torchio fiscale, e corre sul filo di una pericolosa destrutturazione. Economica ma anche sociale, come dimostra l'angosciato avvicinarsi del "popolo dell'Imu" alla scadenza finale per il pagamento delle tasse per la casa.

Consumi e produzione sono fermi, la domanda interna bloccata, la stretta del credito è violenta, i pagamenti non girano e le imprese non hanno liquidità (su di esse gravano anche, a causa delle mafie, costi diretti e indiretti pari al 2,6% del Pil nel Sud e dell'1% nel Centro-Nord), la cassa integrazione è in aumento. Bassa produttività e redditività, una burocrazia cervellotica, una giustizia civile-lumaca completano un quadro su cui aleggia un senso diffuso di incertezza.

Non bastasse, ecco la fotografia scattata dal Centro studi Confindustria: negli ultimi quattro anni, la produzione manifatturiera italiana (cioè l'asse portante del nostro sviluppo industriale) ha perso l'1,2% della sua quota sui mercati mondiali, passando dal 4,5% al 3,3%. Una perdita secca ed esemplare: significa che l'Italia passa dal quinto all'ottavo posto nella classifica delle venti nazioni più industrializzate del mondo. Non solo. La ricaduta in recessione, partendo già da livelli molto bassi di attività dopo il crollo del 2008 che in un solo anno ne ha annullati otto di crescita (ancorché bassa, in media +0,4% annuo), può tradursi in una stagione di vera e propria deindustralizzazione. Significherebbe un ulteriore arretramento di struttura che aprirebbe scenari inediti e drammatici.

Questo non vuol dire che il Paese, peraltro non nuovo a repentini scatti d'orgoglio, sia condannato ad una deriva sistemica. I primati che tuttora l'industria italiana colleziona nel mondo (dal tessile all'abbigliamento alla meccanica non elettronica, solo per fare qualche esempio) dimostrano che dove c'è stata volontà di innovare, adattandosi a mercati sempre più competitivi, i risultati positivi non mancano. Lo stesso dovrebbe accadere dappertutto, e non solo nell'industria. Partendo da un'analisi realistica di ciò che sta accadendo in giro per il mondo ed in particolare in Europa, dove è in corso la battaglia per la sopravvivenza non solo dell'euro ma dell'intera costruzione politica continentale.

In questo senso l'allarme deve prima di tutto trovare orecchie attente nel Governo e nella sua "strana" maggioranza, che sempre più puntualmente rispolvera pratiche (è il caso delle nomine per le Authority) ispirate a vecchi metodi spartitori e che a giorni alterni discute al suo interno sulle prospettive di tenuta dell'Esecutivo.

A sua volta il Governo è chiamato fare in fretta i conti con la realtà di un fisco che sta stritolando un Paese in deficit cronico di sviluppo. Non basta affermare che un calo di 3,4 miliardi del gettito fiscale (a motivo della recessione sulla quale grava una durissima spremitura tributaria) "non è indicativo" per l'esito finale del 2012. Non sono sufficienti forse 3,4 miliardi per un segnale? Si vuole comunque tornare sull'idea di alzare l'Iva? Con quali risorse si intende far fronte ad una possibile manovra di "manutenzione" dei conti pubblici se si mantiene fermo l'obiettivo del pareggio di bilancio? L'intervendo diretto dello Stato a sostegno delle zone terremotate dell'Emilia è postato in 2,5 miliardi per il triennio 2012-2014, cifra che rappresenta meno della metà del gettito fiscale annuale (6-7 miliardi) assicurato dal territorio colpito dal terremoto. Sono numeri che parlano da soli.

Vedremo, infine, cosa accadrà sul fronte delle misure per lo sviluppo. Il Sole-24 Ore ha dato ampiamente conto sia delle annunciate promesse sia dei progressivi passi indietro che sono stati compiuti strada facendo. Ora arriva il momento della verità, ed anche in questo caso l'allarme è rosso.

twitter @guidogentili1

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