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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2012 alle ore 07:52.
Nel clima di grande confusione politica in cui il Governo Monti è costretto a navigare, ci sono almeno due punti fermi.
Il primo è che la crisi italiana può trovare uno sbocco solo in Europa. Nessuno crede che l'Italia possa salvarsi attraverso un colpo di scena provinciale, ma solo favorendo un'azione convergente dell'Unione.
Il che presuppone una sottile capacità di blandire la Germania, da un lato, e di isolarla, dall'altro. Ora non c'è dubbio che Mario Monti si sia logorato sul piano interno, dopo mesi di mediazioni estenuanti, ma è altrettanto sicuro che ancora oggi è lui l'unico in grado di negoziare un patto europeo. Ha tutta l'autorità e la competenza per farlo. In fondo le stesse critiche che piovono su Palazzo Chigi - in particolare quelle del "Financial Times" - esprimono dubbi circa l'abilità del premier nel gestire le questioni domestiche; nessuno mette invece in discussione il profilo europeo di Monti. E la telefonata ricevuta da Obama equivale a un'investitura.
Stiamo vivendo settimane cruciali per il futuro dell'Europa ed è ben poco credibile che i partiti della non-maggioranza vogliano far cadere Monti in un momento così delicato. Quindi bisogna distinguere. Da un lato sono evidenti i malumori, le tensioni e le inquietudini che stanno macerando sia il Pdl sia il Pd; dall'altro non s'intravede alcun disegno preciso volto ad avvicinare sul serio, e non solo in modo velleitario, le elezioni anticipate.
A meno che l'Europa non intenda suicidarsi nei prossimi trenta giorni, scivolando nel gorgo di Grecia e forse Spagna, qualche segnale positivo dovrà venire dall'Unione. Magari non risolutivo, ma pur sempre positivo. E in tal caso chi si prenderà la responsabilità di far precipitare la crisi a Roma? Certo, un incidente è sempre possibile. E lo stesso nervosismo di cui dà mostra il presidente del Consiglio è poco incoraggiante. Ma basterebbe una boccata d'ossigeno dall'Europa per restituire un certo vigore al governo tecnico e al suo leader.
Secondo punto. I partiti non sono minimamente pronti alle elezioni anticipate. E questo è in sé un fattore che non avvicina le urne. Di certo non è pronto il Pdl, come testimonia fra l'altro la presa di posizione del presidente del Senato. Se la crisi d'identità di un grande partito si avvita al punto da bloccarlo nell'incertezza fra una linea di responsabilità nazionale e l'«imitazione di Beppe Grillo», il meno che si possa dire è che quel partito non è pronto per le urne. Anche il ricorso alle liste civiche, in queste condizioni, assomiglia a un colpo di dadi più che a un progetto politico. E il sogno di Berlusconi di tornare allo spirito del 1994 è irrealistico come il desiderio di ritrovare la giovinezza.
Il Pd, a sua volta, è favorito nei sondaggi, ma deve ancora definire lo schema delle alleanze (Vendola, Di Pietro?) e soprattutto si sta preparando ad affrontare il gioco rischioso delle primarie, un rito a cui Bersani alla fine ha deciso di sottoporsi. Neanche il Pd è pronto alle elezioni: nonostante tutto, non sarebbe in grado, nemmeno volendo, di mettere in crisi Monti a breve termine. Al massimo lo lavora ai fianchi.
Tuttavia l'impotenza dei partiti, quando s'intreccia come in questo caso alla relativa debolezza del governo, produce una miscela pericolosa: non le elezioni anticipate, ma il loro surrogato. Ossia una campagna elettorale che comincia ora un po' in sordina e poi si trascina per mesi, fino al marzo del prossimo anno, in un crescendo esplosivo. È un tipico prodotto della politica italiana: la campagna elettorale permanente. Ma questa volta il danno per il paese sarebbe molto grave.
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