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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 15:41.
L'ultima modifica è del 01 luglio 2012 alle ore 19:50.

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Roberto Maroni avrà bisogno di molta fortuna per restituire un senso alla Lega, un partito che sul piano nazionale ha fallito i suoi obiettivi e profondamente deluso i militanti. Secondo logica, è un partito moribondo. È vero tuttavia che il Carroccio maroniano continua ad avere una forza e una ragion d'essere a livello locale, nel "territorio": regioni e comuni.

La traversata del deserto
Ed è a questa rete di amministratori che il nuovo segretario ha fatto appello. Sono loro ciò che resta del movimento leghista ed è lì che si può ancora tessere un filo. Maroni dovrà dunque definirsi soprattutto come referente dei quadri locali e dei presidenti di regione: Veneto e Piemonte, ma soprattutto il primo, perché Luca Zaia è il suo alleato irrinunciabile in questa fase d'avvio della segreteria. Assai più di un altro amico qual è il sindaco di Verona Flavio Tosi. In altri termini Maroni comincia oggi una personale traversata del deserto. Dopo la tempesta, la sua Lega vale oggi circa il 4 per cento dei voti e soprattutto non ha un futuro credibile. L'ex ministro dell'Interno potrà essere un leader che accompagna il tramonto del partito, ovvero quello che individua una rinnovata identità dopo la tempesta. Ma la seconda ipotesi è davvero ardua.

Bossi e Maroni: tesi opposte sul "complotto"
Ciò che suona abbastanza verosimile è l'affermazione di Maroni secondo cui la segreteria sarà autonoma e non si sentirà "commissariata". Chi dovrebbe essere, nel caso, il commissario? Umberto Bossi non è più da tempo il padre-padrone del partito. È stato l'uomo che ha inventato e costruito la Lega, ma anche quello che l'ha distrutta. Il suo discorso al congresso è stato al limite del patetico. Il discorso di uno sconfitto che non fa più notizia nemmeno fra i militanti. Eppure, dietro quei toni massimalisti, privi di qualsiasi autocritica e inneggianti alla secessione, il vecchio leader ha nascosto alcune frecce avvelenate rivolte al suo successore. Per esempio ha rilanciato con forza la tesi assurda del "complotto", che Maroni ha invece respinto: tutto quello che è accaduto al partito sarebbe opera di una congiura romana, perché è lì, nella capitale, che sono i "ladri" e non in via Bellerio a Milano. E l'amministratore fedifrago? Sarebbe un infiltrato dei poteri avversi, prova ne sia che i "servizi segreti" avrebbero dovuto sapere chi era veramente Belsito e avvertire il vertice del Carroccio. Non avendolo fatto, ecco la prova del complotto. In realtà, la tesi di Bossi tra le righe è tutta contro Maroni. Chi, se non l'ex ministro dell'Interno, era in contatto con gli apparati dello Stato e in grado quindi di carpire i segreti dei complottatori? S'intende, Maroni non è mai stato nominato, ma l'odio cova sotto la cenere e bisogna essere ciechi per non vederlo.

"Via da Roma" in attesa degli eventi
La Lega maroniana appare al momento un partito in balìa degli avvenimenti. Non è in grado di determinarli, ma solo di giocare di rimessa. L'alleanza con il Pdl per ora è in macerie; forse sarà ricostruita per il 2013, ma deve passare parecchia acqua sotto i ponti. Il federalismo è stato un fallimento; e non tanto per gli intrighi romani, quanto per il dilettantismo dell'alleanza Carroccio-Pdl. Era un moltiplicatore di costi, anziché uno strumento per ridurre gli sprechi e dare equilibrio alla spesa pubblica. Quanto agli attacchi all'Europa e al "patto di stabilità", Maroni non ha spiegato chi c'era al governo fino a otto mesi fa. Chi aveva ratificato quel "patto"? Chi faceva l'europeista e camminava lungo il sentiero indicato dalla Bce? Era ovviamente il governo Berlusconi, di cui la Lega faceva parte con estrema autorità. Oggi il neo-segretario parla come se fosse appena atterrato da un viaggio in un'altra galassia e forse è comprensibile. Ma la verginità politica non si riacquista facilmente. La Lega promette di lasciare gli incarichi frutto di lottizzazione a Roma, per esempio alla Rai, ed è una scelta meritoria. Ma forse si tratta di poltrone che il Carroccio non ha più la forza di difendere, date le nuove circostanze. Non si tratta proprio di una rivoluzione, bensì di una ritirata imposta dai fatti.

Bossi quasi mai citato
Nel discorso di Maroni Bossi non è stato quasi mai citato, se non di sfuggita. È il senso della svolta. Purché non si dimentichi che stiamo parlando di un partito molto malato, mentre gli scenari evolvono in fretta. I "Cinque Stelle" di Grillo si stanno già mangiando una quota importante dell'elettorato leghista. E l'"unità interna", invocata dal nuovo segretario, è per adesso solo una chimera. Certo, la prospettiva dell'abisso contribuisce a tenere insieme i maggiorenti. Ma l'opera di pulizia, le candidature per le prossime elezioni, le questioni di potere, sono tutti altrettanti fattori di divisione. Sarà Maroni in grado di colpire i suoi nemici e tutti coloro che da domani potrebbero cominciare a soffiare sul fuoco? Finché la Lega è in ginocchio, forse lo lasceranno fare. Ma non appena il vento dovesse girare, sarà bene che Maroni stia attento ai pugnali.

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