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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2012 alle ore 08:10.

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Un Paese ha seri problemi quando cresce poco e paga tanto il suo debito sovrano. L'Italia sa di avere seri problemi, visto che il suo debito a 10 anni ha costi più alti del prevedibile tasso nominale di crescita.
Ma questo non significa accettare come vangelo quanto dicono le agenzie di rating, in particolare Standard&Poor's e Moody's, così legate a un sistema finanziario americano pieno di problemi di suo.

E così interessate al futuro del dollaro e quindi della piazza di New York e di Londra, non proprio amiche dell'euro. Bocciare l'Italia alla vigilia di un'asta di Btp come quella di ieri, per fortuna positiva, è fuori da ogni fair play.

Moody's, che giovedì sera ha declassato seccamente il rating del debito italiano, è americanissima, dal 2000 una public company che ha in Warren Buffett l'azionista di riferimento. Non si è coperta di gloria con il caso Enron, all'inizio del decennio scorso, e si è coperta di ridicolo nel 2008, quando assegnava al debito della moritura Lehman Brothers un A2 e dava un ancor più ottimistico Aa3 al gigante assicurativo Aig, al centro della crisi dei derivati e salvato dal contribuente americano con 170 miliardi di esborso, solo in parte recuperati.

La credibilità quindi è ormai bassa. Ma c'è di più. C'è una partita che Wall Street e Washington, in parte alleate in parte no, stanno giocando. Primo, la finanza americana - e anglosassone in genere - era al collasso quattro anni fa, con la coda agli sportelli telematici per fuggire addirittura da parte dei titoli del debito americano. È stata salvata, più o meno, con un enorme esborso di denaro pubblico, del Tesoro e della Banca Centrale, costato agli Stati Uniti circa quanto la seconda guerra mondiale, nell'ordine dei 3 mila miliardi di dollari. Anche l'Europa ha avuto e ha i suoi esborsi, inferiori ma non di moltissimo. Quindi Wall Street si è salvata per il rotto della cuffia e ha come strategia la riaffermazione, non facile, della propria centralità.

In questo quadro,e nulla poteva essere più utile di una crisi dell'euro. Significa infatti la riaffermazione del ruolo del dollaro, uscito malconcio dal 2008, e della piazza americana. La crisi dell'euro ha ragioni interne europee, non è un complotto, ma ha per altri sensibili benefici, e non solo rischi. La grande finanza americana a maggioranza scommette su un netto ridimensionamento della moneta unica, sull'uscita di alcuni Paesi dall'area euro, e sulla fine del sogno di una grande moneta europea. Sono rari, da un anno e più, sia voci in difesa dell'euro sia giudizi prudenti che mettano in conto anche una soluzione positiva. Quotidiani invece i giudizi perentori sulla fine dello "sciocco esperimento".

C'entrano varie motivazioni: interessi finanziari e monetari enormi, orgoglio ferito, spirito nazionalista legittimo e illegittimo, scarsa conoscenza e qualche pregiudizio (meritato, a volte) sulla realtà del cammino europeo.

Secondo, la partita di Washington. Qui non c'è ostilità, ma non manca una certa ambiguità, del resto naturale nei rapporti geopolitici, anche fra alleati. Con Barack Obama il governo americano ha cercato di avere un ruolo costruttivo nella crisi dell'euro. La cosa più utile tuttavia che potesse accadere per Washington, afflitta da un debito pubblico enorme e superiore in realtà sul Pil a quello che il Paese aveva alla fine della seconda guerra mondiale, era una crisi dell'euro. Non mortale, ma abbastanza grave da consentire al Tesoro di approvvigionarsi senza problemi, come sta accadendo, e ai minimi storici dei costi da 230 anni, cioè da sempre. Il dollaro è un rifugio. Per ora è così. Anche se nessuno può garantire come starà il dollaro quando, confermato Obama o votato Mitt Romney, sarà necessario scoprire le carte sul debito americano che viaggia, quello reale, attorno al 140% del Pil e cresce, come confermano gli ultimi dati di giugno, al ritmo medio di 100 miliardi di dollari al mese, in una cronica discrasia fra entrate e uscite.

Va bene sanzionare il debito italiano. Ma Moody's dovrebbe spiegarci, insieme a S&P's, se dobbiamo contare o no nel debito americano almeno 2 o 3 mila miliardi di debito della finanza immobiliare pubblica di cui Washington si è fatta garante nel 2008, o che fine fanno nella contabilità federale i debiti degli Stati ed enti locali, che alla fine Washington garantisce di fatto. Su questo, silenzio, da sempre. Ma neppure Warren Buffett, che notoriamente si fida più del proprio team di economisti che dei giudizi di Moody's, fa molto conto di quanto dice o non dice la sua agenzia di rating.

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