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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2012 alle ore 09:02.

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È passato un anno esatto da quando il governo italiano, allora guidato da Silvio Berlusconi, trattava con la Banca centrale europea di Jean-Claude Trichet il sostegno finanziario ai titoli del debito pubblico. All'inizio di agosto 2011 la Bce consegnò al governo una lettera molto dettagliata di impegni - riforme strutturali e correzioni del disavanzo - che si attendeva che Roma assolvesse.

Nella sostanza, benché non nella forma, si trattava di condizioni a fronte dell'acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. Gli acquisti di titoli italiani cominciarono infatti nel giro di pochi giorni, facendo calare lo spread, ma le decisioni del Parlamento che dovevano adempiere alle condizioni vennero rinviate una settimana dopo l'altra in un clima di crescente caos politico. Dopo mesi di risposte parziali o contraddittorie del governo italiano, la Bce, che aveva vissuto al suo interno la frattura delle dimissioni di Jürgen Stark, ridusse gli interventi di sostegno. Tra conflitti molto aspri dei capi di governo, la crisi dell'area euro finì per aggravarsi drammaticamente nel novembre 2011

Da allora molte cose sono cambiate, la credibilità del governo italiano è grandemente aumentata e la parte fiscale delle riforme richieste dalla Bce è stata pienamente realizzata. Tuttavia le riforme strutturali, pur diventate priorità dell'azione di governo, hanno incontrato resistenze sia nei partiti sia nelle parti sociali. Ieri per esempio il Parlamento ha approvato il fiscal compact, che garantisce all'Italia una disciplina fiscale europea, ma i 1.800 emendamenti presentati nelle stesse ore sulla spending review sono un catalogo ben illustrato della forza degli interessi particolari, rispetto a quello generale del Paese. Così tanto più la vita residua dell'attuale governo si accorcia, tanto più si fa sentire l'eco della scarsa credibilità dei precedenti governi e della debole volontà riformatrice della società italiana.

Difficilmente dunque l'Italia potrà beneficiare di un atto di fiducia nei mesi a venire da parte dei partner e delle istituzioni europee. In questo quadro, mi fa notare un osservatore molto acuto delle vicende europee, l'ipotesi che risorse comuni - Bce o fondi salva-spread - possano essere mobilitate senza severe condizioni e stretti controlli da parte delle istituzioni europee è poco realistica.

Il contesto d'altronde è quello dell'ostinata sfiducia dei paesi creditori nei confronti del Sud Europa. Nonostante il buon comportamento del Portogallo e l'enorme correzione fiscale accettata dall'Italia, continuano a pesare le falsificazioni del passato e i mancati impegni di Atene. Anche il comportamento dei governi spagnoli è stato sconcertante, avendo nascosto finora la gravità del dissesto bancario. Il memorandum d'intesa sugli aiuti alle banche impone condizioni molto penetranti, non sembra affatto "light" ed è giusto che sia così. La confessione del governo di Madrid di una condizione di quasi default crea infine ulteriore sfiducia nella trasparenza dei conti e pesa sugli sforzi italiani di far apparire sbilanciato il rapporto tra gli sforzi italiani e quelli europei.

Il fondo anti-spread infatti non ha risorse sufficienti. La capitalizzazione resta fissata a 80 miliardi, i fondi mobilitabili sono 500 miliardi. E' ancora incerta la possibilità di sommare i due fondi, Efsf e Esm. L'Eurogruppo oggi cercherà un accordo sulle procedure con cui il fondo di stabilità (Esm) deciderà l'aiuto ai paesi. Se andrà bene le decisioni saranno assunte non all'unanimità ma con una maggioranza dell'85% che scoraggerebbe gli estremisti di Finlandia, Olanda e Austria.
L'Italia è considerata un paese che adempie gli impegni di disciplina fiscale. Significa che il suo problema di sostenibilità del debito è dovuto a un livello dei tassi d'interesse che sta soffocando l'economia e che dipende in parte dalla crisi dell'euro. Come paese adempiente, l'Italia si augurava che il fondo Esm intervenisse in modo automatico, per propria iniziativa, e non su richiesta di aiuto del governo - che finirebbe in grave imbarazzo politico - come invece si è deciso.

Anche la speranza che la Bce mobilitasse le proprie risorse, a fronte di garanzie fornite dai fondi salva stati (Esm e Efsf) sulla copertura delle eventuali perdite, è stata vana. Ora la soluzione inerziale, descritta da un recente rapporto del Fondo monetario internazionale, è che l'economia europea peggiori a tal punto da provocare una deflazione così profonda da obbligare la Bce a procedere a un "quantitative easing" o, in parole povere, all'acquisto di titoli pubblici dei paesi più deboli, proprio per rispettare il proprio mandato di difesa della stabilità monetaria.
Ancora una volta si riuscirebbe a migliorare solo nel peggior modo possibile. L'alternativa è che il rischio politico italiano e il problema di credibilità dell'euro area vengano risolti insieme e che non sia lasciato ai mercati decidere il quando e il come, nè alle troike, bensì che a deciderlo siano il governo e la politica italiani, coinvolgendo volontariamente nella gestione del paese le istituzioni europee prima - non dopo - che sia giunto il tempo di chiedere aiuto. Non sarebbe in tal caso una perdita di sovranità, ma una condivisione di responsabilità.

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