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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2012 alle ore 08:00.

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L'Ilva di Taranto è una roccaforte della nostra manifattura. Se cade, l'Italia industriale zoppica. Per dimensione si tratta di una delle maggiori fabbriche europee.

Gli investimenti tecnologici concentrati a Taranto sono usciti dalla classica organizzazione industriale verticale e hanno fecondato il tessuto produttivo di questo pezzo del Paese, favorendo un indotto in cui le imprese locali sono passate dall'erogazione di semplici servizi all'acciaieria alla presenza sui mercati globali.
Un gioiello hi-tech in grado di creare nuova imprenditorialità nel terziario industriale. Dall'economia pubblica (l'antica origine) al capitalismo privato di uno degli ultimi grandi gruppi imprenditoriali italiani (la stretta attualità), fino alle Pmi di nuova generazione (il futuro). A Taranto c'è veramente la nostra storia. Tutto questo non è poco.

La salute e la vita delle persone, sia chiaro, sono al primo posto, sono un valore assoluto. E non è in discussione il rispetto per il lavoro della magistratura. Nessuno pensa che le ragioni dell'economia debbano prevalere sulla dimensione umana, per carità. Né che esista un diritto a non essere giudicati di chi fa impresa, se commette degli errori. Anzi, su questo punto occorre fare chiarezza fino in fondo e dire in modo incontrovertibile come stanno davvero le cose. Nella complessa vicenda dell'Ilva, però, negli ultimi anni la famiglia Riva ha compiuto scelte di ammodernamento degli impianti e di tutela dell'ambiente. Non sono state sufficienti? Bisogna fare di più? Benissimo.

I nuovi investimenti andranno ad arricchire una cultura industriale che ha nel suo dna il lavoro, la professionalità, le innovazioni di processo, l'efficienza fordista, lo spirito imprenditoriale di chi incomincia da dipendente a operare nel ristretto perimetro di una grande fabbrica e, poi, si accorge che, là fuori, esiste un mondo dove confrontarsi come piccolo imprenditore. Taranto, insomma, specchio dell'Italia.
Questa cultura industriale non va colpita al cuore. La fabbrica non si deve fermare. Esiste un diritto alla vita dell'impresa, inteso come organismo complesso e delicato, che va rispettato. Il sequestro e il blocco delle lavorazioni non lo fanno. I sigilli posti ieri viaggiano con gli automatismi e i tempi tipici della magistratura. È naturale.

Ma non tengono ad esempio conto che il Governo, su Taranto, ha appena firmato un patto per le bonifiche ambientali, che appare coerente con gli investimenti fatti dal gruppo Riva. Le decisioni della magistratura vanno sempre rispettate, soprattutto quando sono originate dalla tutela della salute e dell'ambiente. Possono però essere criticate se, come un pugno, colpiscono al cuore una intera comunità, fatta di imprenditori e manager, impiegati e operai. E non è un caso che tutta Taranto, in questi giorni e nelle ultime ore, abbia mostrato preoccupazione per il futuro delle sue famiglie e dei suoi figli. L'Ilva, con le lingue di fuoco che salgono nella notte dalle ciminiere, non è un nemico da abbattere nell'immaginario di Taranto. È un patrimonio da tutelare.

Come, da tutelare, c'è anche il posizionamento strategico del nostro Paese sul mercato dei capitali destinati agli investimenti produttivi. Gli arresti domiciliari alla proprietà e al management sono soluzioni durissime. Nessuno vuole metterne in dubbio la legittimità giuridica. Quali effetti sostanziali possono però avere nella percezione di chi, italiano o straniero, vorrebbe fare impresa da noi? Non c'è il rischio che la via giudiziaria ai problemi economici fornisca un ulteriore elemento di dissuasione a chi potrebbe investire qui i suoi capitali? Se l'Ilva a Taranto chiudesse, in questa parte del Sud si formerebbe un cratere pieno di incognite sociali ed economiche. Che, però, con la sua forza concreta e simbolica, potrebbe presto trasformarsi in un piccolo buco nero in grado di inghiottire pezzi interi della manifattura italiana e del nostro futuro.

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