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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2012 alle ore 10:00.

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Un caso Ilva sarebbe mai sorto in Germania o in Francia? La domanda è retorica e la risposta scontata. Nessuno dei Paesi avanzati si sarebbe mai messo nella triste condizione di dover scegliere tra diritto alla salute e diritto al lavoro in modo così draconiano come impone oggi la decisione del giudice di Taranto che ha posto sotto sequestro l'area a caldo dell'Ilva.

E ancora più assurdo e autolesionista sarebbe se quel diktat si estendesse ad altri siti mettendo a rischio un intero polo industriale vanto del Mezzogiorno.

Berlino e Parigi mai avrebbero tollerato il bivio-tranello tra salute e lavoro che già altre volte nella storia dell'industria ha cercato composizioni razionali e di buonsenso. Tanto più se quell'aut aut cadesse, come avviene purtroppo. in un territorio dove la disoccupazione colpisce più di un giovane su tre, in un Paese dove il tasso di disoccupazione torna vicino al 10% e dove la recessione protrae la sua ombra nera anche sul 2013.

L'opportunità è essa stessa componente dell'applicazione di un diritto: e l'inopportunità di "sequestrare" un intero impianto strategico per vertenze, in gran parte, superate dagli investimenti effettuati per la bonifica delle emissioni è lampante. Da 800 grammi all'anno di disossina riscontrati nel '94 si è scesi a 3,5, come accade in Francia o in Germania per impianti simili. Gli operai che stanno mettendo a ferro e fuoco la città per chiedere di non perdere il lavoro per primi sanno che l'industria pesante non è un pranzo di gala. La new economy e il suo edificante soft power non c'entrano. A Taranto opera la siderurgia con tutto il clangore della manifattura che, però, rende l'Italia il secondo Paese manifatturiero d'Europa e il quinto-sesto del mondo.

È evidente che il completamento della messa a norma dell'impianto dovrà essere il più rapido possibile ma sapendo che le norme sono state modificate più volte e che i protocolli ambientali sono "materia dinamica" che mal si adatta ai diktat e soprattutto alle chiusure.

Taranto ha fatto una scelta consapevole di sviluppo industriale quando nel '59 ha deciso di abbattere 20mila ulivi per creare il perimetro dell'impianto; ed era l'industria di Stato a chiedere quel sacrificio. Ed è con lo Stato padrone che si è raggiunto il picco massimo di inquinamento. Negli ultimi quattro anni il gruppo Riva, che ora controlla il polo siderurgico tarantino, ha investito un miliardo nel miglioramento ambientale dell'impianto. Altri 336 milioni saranno stanziati da un protocollo Stato-enti locali-azienda per un ulteriore miglioramento della bonifica dell'area. Il Sole 24 Ore ha già più volte detto che nessuno chiede di non indagare eventuali responsabilità, ma di non farlo con provvedimenti di blocco e sequestro inutilmente autolesionisti, e considerando anche eventuali responsabilità collettive nella gestione delle bonifiche.

È auspicabile che il riesame atteso per l'3 agosto esca dalla logica manichea che ha indotto il Gip al sequestro e tenga conto dello sforzo in atto per rendere migliore la salubrità del ciclo di lavorazione. Ed è la stessa Regione, retta da un politico come Niki Vendola che fa della sostenibilità la sua cifra di governo, a suggerire un approccio graduale e di buonsenso dopo avere definito i nuovi standard di tollerabilità. Invece finora il buonsenso sembra far difetto a questo assurdo braccio di ferro il cui unico esito sembra essere un vero cupio dissolvi per una città che finora si era salvata dai morsi della crisi globale proprio grazie al buon andamento dello stabilimento Ilva, uno dei più grandi e apprezzati d'Europa. Ora sono in 15mila a temere per il lavoro e altre migliaia nell'indotto; una intera regione vede minata la sua stessa economia dato che il 50% dell'export regionale viene dallo stabilimento chiuso.

Sarebbe un ben strano Paese quello in cui la bandiera del codicillo e di un diritto alla salute che toglie il diritto al lavoro sventolasse, alla fine, su un cumulo di macerie, cimitero ideale per le danze macabre che i mercati, come streghe di Macbeth, non vedono l'ora di ballare sul corpo di un'Italia già ferita e vulnerabile.

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