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Questo articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2012 alle ore 14:07.

Il 14 agosto l'Università Jiao Tong di Shanghai ha pubblicato la sua classifica annuale (Arwu-Academic Ranking of World Universities) sulle 500 migliori Università del mondo.

I criteri adottati sono sei, tra i quali la presenza di premi Nobel nei professori e negli ex allievi, il numero dei ricercatori maggiormente citati nelle loro discipline, il numero delle pubblicazioni sulle riviste specializzate, il numero dei professori presenti nell'Università. Questa classifica, tra quelle elaborate annualmente, è certamente la più autorevole. Il rilievo maggiore è dato alle prime cento Università, fra le quali ben 53 sono statunitensi.
Quel che mi pare doveroso sottolineare è che fra le prime cento non figura nessuna Università italiana, mentre tra quelle europee sono presenti, in ordine decrescente, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, la Svezia, l'Olanda e la Danimarca. Qualche rilievo può essere fatto sui criteri di scelta, come ha sottolineato la ministra dell'Istruzione francese, precisando che le scienze umane e sociali appaiono postergate e che anche laddove ci sono dei centri di eccellenza, soprattutto nella ricerca, la lingua usata, il francese, «scientificamente una lingua morta», può aver giocato per ridurne la reputazione scientifica internazionale.

Cade subito in taglio un identico rilievo per quel che riguarda l'Italia, nella quale centri universitari di eccellenza certamente esistono, ma il complesso del sistema dell'educazione, nonostante ammirevoli eccezioni, è assolutamente degradato, né pare che pur parlando di crescita, ma finora privilegiando l'austerità, l'istruzione sia all'attenzione della classe politica e delle istituzioni.
Ciò è particolarmente grave se si considera che il risultato delle politiche di rigore, che tolgono ogni spazio a efficaci investimenti sull'istruzione, creano all'interno del Paese un incremento inarrestabile delle disuguaglianze, come già aveva paventato il grande illuminista Condorcet, quando nelle sue "Memorie sull'istruzione pubblica" sottolineava che per risolvere le ineguaglianze create dalla libertà dei commerci (diremmo ora dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario), l'uguaglianza dovesse essere garantita nella parità dell'istruzione dei cittadini.

Non diversa eco gli faceva allora Adam Smith, ed oggi per citare i più recenti, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo libro "The price of inequality", piuttosto che Amartya Sen, che pone l'istruzione alla base della giustizia sociale e della libera partecipazione alla vita politica dei cittadini. Tutto sembra far propendere per l'icastico inizio della prima Memoria di Condorcet: «L'istruction publique est un devoir de la société à l'égard des citoyens».

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