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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2012 alle ore 07:55.

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Una cosa è certa: non è con la violenza che si costruirà un futuro possibile per l'Alcoa e per i suoi lavoratori. I sindacati farebbero bene a isolare e condannare subito chi ieri a Roma ha incendiato la piazza. Lo stato d'ansia del Paese, alle prese con la fase più dura della crisi dell'economia reale, non può permettersi un'escalation della tensione. Servono nervi saldi.

Chiunque oggi è in posizioni di responsabilità deve aiutare a trovare soluzioni, non gettare benzina sull'incendio. Ed è il Governo, insieme ai sindacati, il primo a dover esercitare con chiarezza le sue responsabilità.
Nelle prossime ore e giorni il ministro Passera verifichi ogni strada possibile per dare risposta ai 500 operai interessati. Faccia di tutto per trovare una soluzione. Faccia di tutto, però, nell'ambito delle compatibilità, che sono etiche prima che contabili, delle risorse scarse che oggi il bilancio pubblico ha a disposizione.
Sono considerazioni difficili, nel momento in cui è in gioco il futuro di tante famiglie. Ma va ricordato che oggi nel Paese ci sono centinaia di crisi industriali aperte. Ai soli tavoli del ministero dello Sviluppo sono 160 le situazioni più complesse. Si tratta di migliaia, decine di migliaia, di lavoratori in bilico. Un domani cosa diranno quando per loro non potranno esserci soluzioni altrettanto impegnative per le casse dello Stato?

Ma il caso Alcoa non è solo questo. È il simbolo di un fallimento più generale dello Stato. Uno Stato che è costretto, anno per anno, a inseguire crisi industriali una dopo l'altra, disperdendo enormi risorse ex post, perché non è in grado di ideare e praticare ex ante una lungimirante politica industriale. Una politica che sappia concentrare le poche risorse disponibili non in sussidi per produzione decotte, ma in interventi strategici a carattere generale. Perché il problema italiano non si chiama Alcoa. Non solo, almeno. Il problema italiano, come ha evidenziato ancora ieri l'Istat, è l'industria, la manifattura nel suo complesso. È la realtà di interi settori produttivi che rischiano di arretrare storicamente. Settori come l'automobile, che hanno fatto la storia industriale del Paese.
Davanti a questa emergenza bisogna avere ben chiaro il senso delle priorità. Nei giorni scorsi a Cernobbio, il direttore generale della Bdi, l'associazione delle industrie tedesche, ha spiegato bene il segreto del successo della manifattura tedesca: una vera e propria ossessione per la produttività, che ha camminato sugli investimenti in ricerca, sull'innovazione continua, sulla collaborazione tra le parti in sede aziendale.

Poco prima era stato il ceo dell'Efsf, Klaus Regling, a evidenziare che tra i tanti indicatori positivi che riflettono le riforme fatte in Italia, non c'è ancora quello del Clup (il costo del lavoro per unità di prodotto) che continua - unico in Europa - ad aumentare.
Produttività dunque: ecco la politica industriale che serve al Paese. Bene ha fatto il Governo ad aprire su questo un confronto con le imprese e i sindacati. Ma allora, se questa è la priorità, più che disperdere risorse in interventi ex post a pioggia, sarebbe utile che il Governo impegnasse ogni euro in favore di sgravi universali per gli investimenti in innovazione e per i salari di produttività. E non solo. Perché una politica che abbia a cuore la manifattura deve guardare alle tante aree industriali dismesse da recuperare, deve creare scuole di alta formazione, rilanciare istituti tecnici in grado di ridare dignità e creazione di valore al lavoro manuale.
Senza dimenticare che oggi siamo in Europa. Ed è l'Europa, prima ancora dell'Italia, a doversi dotare di una politica che rimetta al centro l'industria.

Se l'Unione a 27 ha perso cinque punti percentuali di produzione rispetto al Pil in 10 anni, è anche perché continuano a prevalere barriere formali e informali, regolazioni differenti, mancato coordinamento. Romano Prodi sul Sole 24 Ore di domenica ha fatto l'esempio delle strategie divergenti sullo shale gas, ma la balcanizzazione dell'industria europea riguarda le normative sui brevetti, le politiche dell'energia, il capitale d'investimento, il riconoscimento dei titoli professionali.
Quando si parla di unione bancaria, fiscale, politica dell'Europa, faremmo bene a ricordarci anche di questo. E a tenere a mente, soprattutto, che nel vecchio continente dall'industria dipendono ancora 76 milioni di posti di lavoro. Perché, allora, non mettere in cima all'agenda un'Unione della manifattura? Magari non sembra, ma in qualche modo riguarda anche i lavoratori di Alcoa.
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