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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2012 alle ore 07:59.

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«La stagnazione della crescita della produttività è stata il fattore chiave nella perdita di competitività dei costi da quando è stato adottato l'euro»: il richiamo all'Italia arriva dalla commissione europea.
Anche al Forum Ambrosetti di Cernobbio, come in molte occasioni di studio e di riflessione sulla crisi europea, si è discusso nel fine settimana delle difficoltà italiane.

Al di là dello sconquasso debitorio, dell'andamento sempre preoccupante dei rendimenti obbligazionari o dell'aumento della disoccupazione, molti responsabili europei mettono spesso l'accento su una evoluzione della produttività sempre deludente rispetto a quella di altri paesi.
«La stagnazione della crescita della produttività è stata il fattore chiave nella perdita italiana di competitività dei costi da quando è stato addottato l'euro - spiega da Bruxelles Simon O' Connor, portavoce della Commissione europea per gli affari economici e monetari -. Questo aspetto, associato a un debito pubblico molto elevato, rappresenta la principale vulnerabilità dell'economia italiana, con un impatto negativo sul l'economia reale e sulle prospettive di crescita».
I responsabili della Commissione non mancano occasione per pungolare la classe politica italiana. Ancora quest'ultimo fine settimana, in una intervista al Sole-24 Ore, il commissario agli affari economici e monetari Olli Rehn ha suggerito al governo Monti di mettere nero su bianco «un piano di priorità politiche e uno scadenzario preciso delle riforme strutturali che intende adottare in un orizzonte che vada oltre il 2013» (si veda Il Sole-24 Ore di domenica).

«A conti fatti, l'Italia è in mezzo alla classifica nel campo della produttività - spiega Zsolt Darvas, economista a Bruxelles di Bruegel -. Come in tutti i paesi c'è stato in Italia un calo della produttività dopo lo scoppio della crisi finanziaria. Negli ultimi due anni abbiamo assistito a una stabilizzazione, però con una recente tendenza al ribasso. Le prospettive non sono promettenti». In parte il nuovo calo è dovuto a fattori ciclici, in parte a riforme insufficienti, o che non hanno ancora avuto effetto.
Secondo i dati di Bruegel, la produttività tedesca è salita tra il 2000 e il 2008 di circa il 20%, quella italiana di appena il 3%. La produttività influenza la competitività, e quest'ultima si riflette nelle esportazioni di un paese che continua a dipendere dal grande mercato europeo. A livello mondiale, e sulla scia della concorrenza dei paesi emergenti, l'Italia ha perso nell'ultimo decennio quote di mercato in 16 settori produttivi su 22, secondo le statistiche della Commissione.

Nelle sue ultime raccomandazioni, pubblicate in maggio come ogni anno per i paesi dell'Unione, l'esecutivo comunitario esorta l'Italia a rafforzare il legame tra salari e produttività a livello settoriale e a livello aziendale, riducendo il peso della contrattazione collettiva nazionale. Troppo spesso gli aumenti salariali non dipendono né dalla produttività né dal merito, ma da scatti di anzianità, da automatismi legati al grado o alla mansione, e indirettamente anche dall'inflazione.
Gli economisti dell'esecutivo comunitario notano inoltre che l'aliquota fiscale implicita (la implicit tax rate che comprende sia l'imposta sul reddito che i contributi sociali) era nel 2010 in Italia pari al 42,6% del compenso totale di un lavoratore, la più elevata tra tutti i paesi della zona euro. Ciò detto, alla bassa produttività italiana contribuiscono anche un sistema amministrativo troppo inefficiente, un tessuto economico troppo regolamentato, una struttura aziendale troppo piccola, che spesso non consente economie di scala.

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