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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2012 alle ore 08:18.

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Quante probabilità ci sono che la politica italiana torni presto ai suoi vizi antichi? Mario Monti mostra di temerlo e non si può dargli torto. È una preoccupazione diffusa, come sappiamo. Qui non si tratta di discutere del futuro del premier dopo la primavera 2013, tema peraltro destinato a restare sullo sfondo di qui ad allora.

Il punto è un altro: chiunque abbia a cuore il destino dell'Italia ed eserciti una responsabilità istituzionale oggi si pone lo stesso interrogativo. La classe politica rischia di arrivare alla scadenza elettorale senza aver compiuto, se non in minima parte, il processo di rinnovamento nelle idee e nelle persone che sarebbe stato indispensabile: anzi, che era l'altra faccia della medaglia quando Napolitano mise in campo l'esecutivo "tecnico", dieci mesi fa. Il rischio reale è che le forze politiche si avviino a una pessima campagna elettorale e poi si ritrovino nel nuovo Parlamento senza sapere con precisione cosa fare.
Si dirà: in quel caso ci si appella di nuovo a Monti, nella previsione che sia ancora Giorgio Napolitano (prima di maggio, quando finisce il suo mandato) a rimettere insieme i tasselli del mosaico e a favorire una soluzione. C'è una logica in questo, ma l'operazione è più semplice a dirsi che a farsi. Se davvero la politica arriva in primavera prigioniera della confusione e dell'impaccio di cui dà prova oggi, è difficile che la razionalità prevalga: a meno che i numeri parlamentari fra i diversi schieramenti obblighino a un forzato equilibrio. Scenario imprevedibile oggi, visto che non si conosce ancora il modello elettorale con cui si voterà. Ma in ogni caso anche la "grande coalizione" di cui si parla tanto, persino troppo, è una partita assai più complicata di come si crede.

In sostanza occorre ancora sperare che le forze politiche, a sinistra come a destra, siano scosse dal fremito di qualche novità concreta. Sotto questo aspetto il caso Vendola dimostra invece che poco o nulla cambia nell'area di quello che un tempo era il Pci (più un segmento del mondo democristiano). Quel che è evidente, è già saltato lo scenario ottimistico di un'alleanza post-voto fra Bersani e Casini, con i vendoliani innocui vessilliferi dell'antico massimalismo, ma ridotti a mera testimonianza. E per quanto riguarda la destra, ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando si domanda dove sia finito il Pdl berlusconiano, semi-scomparso dal proscenio. Insomma, l'inadeguatezza dei maggiori partiti è sotto gli occhi di tutti. Ma anche l'Udc-Italia di Casini non riesce finora a proporsi come credibile asse strategico: ottima tattica, certo, ma senza riuscire ad allargare gli orizzonti.

Come dire che in apparenza siamo alla paralisi. Tuttavia l'esperienza insegna che è proprio in questi momenti che spesso accade qualcosa d'imprevedibile e tutto si rimette in moto. Franco Debenedetti, su queste colonne, vede in Renzi il fattore dinamico in grado di capovolgere il quadro, mostrando l'anacronismo sia del Pd sia del Pdl, nelle loro attuali ingessature. È probabile che sia così. Renzi può essere il sasso che rotolando provoca la valanga e obbliga sia la sinistra sia la destra a fare i conti con la realtà. E con la serietà di una politica che oggi comincia e si conclude in Europa.

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