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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2012 alle ore 08:17.

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Con un viaggio rocambolesco su un cargo greco Christopher Stevens era arrivato a Bengasi all'alba dell'11 aprile 2011 come inviato americano presso i ribelli. Della sua missione contro la dittatura di Gheddafi ha lasciato una descrizione densa di partecipazione: «Credo fermamente - scriveva a Washington - nella speranza del cambiamento e nella comprensione tra i popoli».

L'amico americano della nuova Libia, diventato ambasciatore, è stato ucciso nella "sua" Bengasi proprio da coloro che vogliono sabotare la speranza e la transizione democratica.
Forse un giorno, quando sarà svanita la rabbia scatenata da un pessimo e osceno film su Maometto di un oscuro produttore californiano, anche Stevens sarà ricordato come un eroe della nuova Libia. Possiamo soltanto immaginare lo smarrimento nelle ultime ore di vita di un diplomatico che parlava arabo correntemente e mostrava grande conoscenza e rispetto dell'Islam. La sua è stata la fine crudele e ingiusta di un uomo del dialogo.
L'attacco al consolato americano di Bengasi appare un'operazione pianificata e condotta in stile militare: vi hanno partecipato uomini armati di khalashnikov e lanciagranate. Una situazione ben diversa dal Cairo, dove in una dimostrazione di stampo politico i salafiti hanno assaltato l'ambasciata Usa a due passi da Piazza Tahrir, simbolo della primavera araba.

Nella stessa Bengasi, nel febbraio del 2006, c'erano stati undici morti tra i manifestanti che protestavano contro l'allora ministro delle riforme Roberto Calderoli che avevano mostrato in tv una maglietta con le vignette satiriche su Maometto pubblicate da un giornale danese. Questa volta in piazza non c'erano gli shebab, i giovani, ma guerriglieri armati fino ai denti. Il film potrebbe essere soltanto una scusa, così come non è chiaro il legame con l'anniversario dell'11 settembre e l'uccisione di Abu Yahia al Libbi, leader libico di al-Qaida, eliminato mesi fa a un drone Usa in Pakistan.
La pista di al-Qaida è quella più accreditata dai media americani. Ma forse è più interessante collegare questi eventi alla situazione interna libica e ai suoi riflessi internazionali: ieri a Tripoli il Parlamento era chiamato a eleggere il nuovo primo ministro - ha vinto Mustafa Abu Shagur, appoggiato dai Fratelli musulmani - nel Paese circolano dozzine di gruppi armati, finanziati da fuori per destabilizzare la nuova Libia che sembra percorsa dalle stesse ondate integraliste che hanno sconvolto il Mali, antico protettorato di Gheddafi.

I confini libici, anche quelli con l'Egitto, sono terra di nessuno: chi controlla queste aree desertiche, visto che anche al Cairo sono immersi nella precarietà? Tra spinte terroristiche, gruppi criminali e rivendicazioni autonomiste, la Cirenaica è diventata un'inquietante zona cerniera, base di attività destabilizzanti.
Come in passato, dalla Somalia all'Iraq, i gruppi armati integralisti si infilano nelle aree grigie dove lo Stato è debole, lungo un arco della crisi che va dal Maghreb, al Medio Oriente, all'Asia centrale. Sta avvenendo in Siria, dove approfittano della lotta contro Assad, accade nel Sinai egiziano, nel Sahel, in Nigeria. Questi possono essere i frutti avvelenati della primavera araba sulla sponda Sud. Non basta bombardare un dittatore e cambiare un regime: gli ordigni degli aerei occidentali sono meno intelligenti e insidiosi delle cattive intenzioni degli uomini. Stevens, l'amico americano dei libici, ha pagato per questo.

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