Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2012 alle ore 08:15.

My24

In termini di prodotto interno lordo è andata peggio della prima guerra mondiale. E la caduta dei consumi (-3,6% pro capite) è la più rovinosa dal secondo dopoguerra. Se i numeri del l'oggi (ai quali va aggiunto un debito pubblico, al lordo degli aiuti agli altri Stati, in crescita al 126% del Pil nel 2013) si specchiano nelle tremende stagioni belliche del passato c'è poco da discutere.

Piuttosto, bisogna solo agire cercando di ri-creare le condizioni perché l'Italia, seconda potenza manifatturiera in Europa dopo la Germania, possa dare un calcione al piano inclinato sul quale continua ad essere adagiata.
Non si parte da zero, sia chiaro. Al governo Monti e alla sua "strana" maggioranza politica va riconosciuto il merito di aver evitato il crack sistemico e di aver riposizionato l'Italia in Europa su una frontiera di credibilità politica che aveva perso. Un percorso serio di riforme è stato avviato e in parte già realizzato, come per le pensioni. E grazie anche alla svolta della Bce guidata da Mario Draghi (per ora è bastato minacciare l'uso del bazooka antispread per calmierare la corsa dei tassi d'interesse e agevolare il rifinanziamento degli Stati e delle banche), sono state gettate le basi per un'uscita non episodica da una crisi senza precedenti.

Tuttavia, come dimostrano i numeri e le previsioni del Centro studi Confindustria, sarebbe un clamoroso errore abbassare la guardia. Perché la congiuntura mondiale peggiora (frenano i Paesi emergenti, la ripresa Usa è fragile, la stessa Germania rallenta) e perché l'Italia, con la sua caduta record lunga sette trimestri (-3,6% il Pil) al massimo può contare su un rallentamento di questa flessione a partire dagli ultimi mesi di quest'anno. La notizia che la multinazionale Fiat-Chrysler rivedrà il piano "Fabbrica Italia", annunciato nel 2010 ma non più attuale per la crisi che ha sconvolto il mercato dell'auto, è di quelle che pesano in un contesto industriale già in peggioramento e sul crinale tra globalizzazione spinta e sfida competitiva sulla base della qualità del prodotto. Notizia prevedibile, ma non per questo meno forte vista la storia, tutta italiana, della grande impresa simbolo dello sviluppo economico.
Non a caso il ministro Elsa Fornero ha parlato ieri di «drammatici dati della recessione» e il CsC ha fissato a quota -2,4% e -0,6% la dinamica del Pil nel 2012 e nel 2013. Non bisogna poi dimenticare che l'Italia, "indiziata" assieme alla Spagna per una richiesta di aiuti all'Europa, da qui a tutto il 2014 ha necessità di finanziarsi sui mercati per un ammontare di 417 miliardi di euro (267 la Spagna).

Scontato che una politica per la crescita non può finanziarsi in deficit e che d'altra parte non è tollerabile una pressione fiscale effettiva (cioè tenuto conto del sommerso) pari al 54,3% nel 2013, i margini di discussione, anche politica, sono stretti. Una spesa pubblica che resta inchiodata al 51% del Pil anche l'anno prossimo e una burocrazia che costa alle imprese 26 miliardi restano tra i terreni più fertili su cui intervenire assieme ad un programma di alienazioni del patrimonio pubblico anche più veloce di quello prospettato dal governo per ridurre il debito (9,7 punti di Pil entro il 2020).
Ieri il capo economista di Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice ha avanzato una proposta concreta per rilanciare l'occupazione: azzerare per due anni il cuneo contributivo per i neoassunti (5 anni per gli assunti nelle società di start-up). Ipotesi, 100 mila assunti con un costo finale di 500 milioni. Inoltre, a proposito di spread, il gap di produttività del lavoro e di produttività sistemica per giustizia e infrastrutture (per non dire della ricerca, dove l'Italia è all'anno zero per gli incentivi fiscali) sono da allarme rosso. E un Paese che non compete è destinato a un inesorabile declino.

Margini stretti (ma chiari) di politica economica non significano però rinunciare a quel percorso di risanamento e crescita insieme, che la stessa Europa ci chiede con insistenza di confermare al di là del mandato del Governo Monti. Al contrario, la sfida politica e delle parti sociali può alzarsi. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi si è detto favorevole a un accordo per la crescita che vincoli sia gli attuali Governo e Parlamento sia quelli che usciranno dalle prossime urne. Maturerebbe così un programma di riforme concordato con la Commissione europea e la Bce che a sua volta potrebbe aprire la strada alla firma del memorandum necessario per attivare lo scudo antispread. Lo scudo abbasserebbe i tassi per lo Stato, le banche, le famiglie e le imprese e l'uscita dalla crisi potrebbe essere più rapida. Un percorso di guerra ispirato da un riformismo pragmatico. Del resto, i numeri della crisi sono da confronto bellico.

Shopping24

Dai nostri archivi