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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 08:10.
Uno dei vizi più gravi di governi e parlamenti è legiferare spesso sull'onda dell'emotività. Non si può dire lo stesso sulla corruzione. Anzi. Che cos'altro deve ancora accadere per approvare una legge? Non c'è bisogno di essere particolarmente virtuosi per capire che è tempo di muoversi, in fretta e bene. Che non possiamo più permetterci il costo economico ed etico del malaffare, che da vent'anni dilaga di fronte agli occhi increduli di cittadini e imprese.
Che l'Italia non rialzerà la testa finché economia e politica rimarranno ostaggio di un sistema corruttivo inossidabile tanto quanto la mancanza della volontà concreta di aggredirlo.
Nei mesi scorsi, su questo giornale abbiamo documentato i costi della corruzione e riportato analisi e testimonianze di economisti, anche internazionali, e di magistrati. Per la Banca mondiale, un'efficace lotta alla corruzione produrrebbe un aumento del reddito superiore al 2,4%; le imprese crescerebbero del 3% annuo in più; la corruzione frena gli investimenti esteri perché rappresenta una tassa del 20%. Per Transparency international, ogni grado di aumento del livello della corruzione riduce del 16% gli investimenti stranieri diretti mentre un miglioramento negli indici pari a una deviazione standar (2,38 punti) è associato a un incremento degli investimenti di oltre 4 punti e determina un incremento di oltre mezzo punto del Pil pro-capite.
L'Fmi ci ha ricordato che la corruzione «danneggia la crescita economica attraverso diversi canali, perché scoraggia gli investimenti, riduce la qualità dei servizi e abbassa le entrate fiscali» (Kenneth Kang), inoltre «aumenta l'ingiustizia sociale e la povertà e riduce anche la progressività del livello di tassazione, la misura e l'efficienza della spesa sociale, la formazione di capitale umano, perpetuando una distribuzione ineguale della proprietà e un accesso ineguale all'educazione» (Carlo Cottarelli). Non c'è aspetto della nostra vita che non sia falsato dalla corruzione. Che incide sulla governance, cioè «sull'insieme di situazioni e istituzioni che dovrebbero portare più trasparenza e più libertà economica» (Miria Pigato, Banca Mondiale). «La crisi economica non è soltanto un problema di strumenti economici e finanziari, ma anche di legalità: per risolverla - ci ha ricordato Giovanni Kessler, direttore dell'Olaf, l'Organismo europeo antifrodi - bisogna dotarsi di un'adeguata strategia anticorruzione e l'Italia non può pensare di andare avanti con norme che risalgono agli anni Trenta». Si potrebbe continuare ricordando le denunce reiterate della Corte dei conti sulla corruzione che fa perdere allo Stato 60 miliardi annui, le Convenzioni internazionali, i richiami dell'Ocse e dell'Europa...
La risposta politica non è all'altezza di questa emergenza nazionale. Le parole non vogliono tradursi in azioni. Il governo Monti sta cercando di rompere la spirale del mero annuncio per dare al Paese un minimo di anticorpi necessario a recuperare credibilità e competitività. Ma una maggioranza «strana» lo accusa di non saper gestire politicamente la situazione, condannando così la riforma al «binario morto». Giusto il sarcasmo del premier: «C'è un'inerzia comprensibile, ma non scusabile, di alcune parti politiche». Il Pdl, infatti, continua ad alzare l'asticella rispetto a una mediazione tecnica e politica che già tiene conto dei suoi desiderata: dalla riscrittura della «concussione per induzione» (reato per cui è imputato Berlusconi, oltre ad altri politici di vari schieramenti) al veto sull'aumento della prescrizione, che sarebbe invece indispensabile per consentire ai processi di arrivare alla sentenza, rendendo efficaci le nuove norme. Può darsi che le pretese del Pdl servano solo a far blindare il testo già approvato alla Camera. Che sia tutto, insomma, un gioco delle parti. Certo, però, che lo spettacolo di una politica «comprensibilmente inerte, ma non scusabile» affossa ogni velleità della politica di recuperare fiducia e consensi.
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