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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 08:15.
C'è voluta una settimana, più o meno, prima di arrivare alla conclusione logica e fin dal primo momento inevitabile: dimissioni di Renata Polverini, scioglimento del Consiglio regionale del Lazio e ritorno alle urne.
Questa settimana di incertezze e giravolte è servita non per risalire la china, cosa impossibile, bensì per convincere anche il più distratto dei cittadini della miseranda verità: a Roma non è caduta una giunta, è collassato un sistema. Un groviglio di interessi, di potere e sottopotere, di ingordigia e malversazioni, che ha strangolato la maggioranza di centrodestra, ma che trascina a fondo anche quelle forze di opposizione - a cominciare dal Pd - che hanno ratificato e troppo spesso condiviso nella sostanza lo sperpero del denaro pubblico.
Quei quattordici milioni lievitati negli ultimi due anni e spartiti fra tutti i gruppi consiliari rappresentano una pagina oscura, un punto-limite che sarà molto difficile far dimenticare. È il simbolo di quell'intreccio vischioso in cui annega la residua credibilità di alcune forze politiche e con essa la retorica dell'autonomia regionale. Perchè quello che è accaduto nel Lazio è davvero uno scandalo di sistema, nel senso che esso si rinnova, in forme diverse e magari non così esasperate e clamorose, in molte altre regioni (non in tutte, per fortuna).
Basta andare a controllare e a indagare per scoprire quale grande truffa spesso trasversale si è consumata per anni alle spalle degli italiani.
Stiamo assistendo a un incredibile «spot» a favore dei movimenti anti-politici e di chi è tentato di ingrossare alla prima occasione il partito dell'astensione. Di fronte a tutto questo c'è voluto un tempo troppo lungo perché si prendesse atto della realtà. Quando ieri sera Pier Ferdinando Casini si è presentato con viso grave ai microfoni del Tg3 e ha finalmente annunciato il ritiro dell'Udc, la roccaforte laziale si è sgretolata.
La Polverini ha dovuto lasciare il campo portandosi dietro l'intero consiglio. Ma i toni della conferenza stampa sono stati inverosimili, in tutto degni della vicenda tragicomica a cui il paese ha assistito: non un segno di autocritica, non una riflessione seria sugli errori compiuti. Nell'analisi della governatrice, che non si avvede della contraddizione, la giunta è innocente e il consiglio è colpevole. Il suo argomento forte riguarda la correità dell'opposizione, ma al di là delle collusioni che ci sono state e che stanno uccidento l'idea stessa del regionalismo, non si può dimenticare che lo scandalo di Roma ha dei nomi e dei cognomi. Il primo dei quali è quello emblematico del signor Fiorito, fino a poco tempo fa capogruppo del Pdl, non uno che passava per caso.
Ora la questione si fa molto seria, dal punto di vista morale e soprattutto politico. Le stesse parole del presidente dei vescovi, cardinale Bagnasco, dimostrano che la classe politica e amministrativa ha tradito se stessa quasi senza rendersene conto, forse perché rappresenta il prodotto sempre più scadente di meccanismi di selezione assenti o incomprensibili. Comunque mai trasparenti. E non esiste prospettiva democratica senza un ricambio virtuoso dei gruppi dirigenti: al centro come negli enti locali.
È una coincidenza non priva di significato che proprio ieri, mentre nel Lazio si consumava l'ultimo atto della farsa, il presidente del Consiglio accusava i partiti, o meglio un certo «settore politico» (tutti hanno capito quale), di frenare la legge sulla corruzione. Ancora una volta si è presentato il supremo paradosso. Da un lato Monti che si sforza di creare un'immagine positiva della politica, come sarebbe se fosse approvata a larga maggioranza la legge anti-corruzione. Dall'altro lato i partiti (o alcuni partiti) che si mettono di traverso e boicottano l'impresa. Quindi non solo non fanno ciò che dovrebbe essere di loro competenza, ossia procedere di buona lena sulla via del rinnovamento morale e dell'affermazione di nuove regole, ma si compiacciono anche di mettere del piombo nelle ali del governo tecnico.
Quindi da una parte abbiamo il Monti europeo che parla nelle sedi internazionali e dice: «L'Italia non è più un problema per la stabilità dell'euro». E dall'altra il provincialismo estremo del Lazio, una vicenda che andrà sulle pagine dei giornali e dei siti stranieri, distruggendo o incrinando il lavoro di mesi compiuto dal premier. Perchè la credibilità si perde in un attimo e per riguadagnarla possono non bastare gli anni.
D'ora in poi, da qui alle elezioni, il tema della lotta alla corruzione e all'illegalità diffusa diventa una grande questione democratica. E se i partiti non sono capaci di affrontarla, come non sono stati capaci di autoriformarsi e di tagliare il numero dei parlamentari, il governo dovrà prendere qualche iniziativa per rassicurare l'opinione pubblica.
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