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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2012 alle ore 08:00.

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È andato nella tana del lupo ieri Mario Draghi a cercare come San Francesco di fraternizzare, pacificandola, con una Germania che, salvo poche eccezioni, continua a guardare con sospetto lui come quasi tutto il resto dell'eurozona. È andato a Berlino a parlare alla Bdi, alla federazione dell'industria tedesca, cioè al motore della competitività globale e della crescita della prima economia europea.

Antica e ferrea paladina della moneta e del mercato unico dai quali ha tratto enormi benefici, dopo un triennio di crisi l'industria tedesca non è diventata euroscettica: né potrebbe, visto che grazie alle disgrazie altrui si finanzia sui mercati a tassi vicini allo zero accumulando ulteriori vantaggi rispetto ai partner Ue. Però si interroga con crescente preoccupazione sui costi in prospettiva del salvataggio dell'euro perché teme, come molti, che finiranno tutti per scaricarsi sulle spalle dei contribuenti tedeschi. Quindi non vede con grande favore il piano anti-spread della Bce.
La Bdi non è la Bundesbank di Jens Weidmann che, per fermarlo, medita ricorsi davanti alla Corte di Giustizia Ue. Le obiezioni dell'industria sono pragmatiche. Non dogmatiche. Ma alla fine la sostanza non cambia molto per Draghi. Che non a caso si è offerto di spiegare anche al Bundestag, altro covo di dissenso, tutte le ragioni della sua politica.

«Nelle circostanze attuali le maggiori minacce alla stabilità dell'euro derivano dall'inazione, non dall'azione. Per questo abbiamo agito», ha spiegato il presidente della Bce. Ribadendo che il suo piano intende ricreare le condizioni per l'efficace funzionamento della politica monetaria unica e non finanziare gli Stati. Che il suo piano «non è la soluzione ma un ponte» verso il futuro. Da completare con l'azione dei Governi, a livello individuale e collettivo. «Senza riforme e senza condizionalità, gli interventi della Bce non sarebbero né efficaci né credibili». A riprova, la relativa calma sui mercati seguita ai recenti segnali positivi lanciati dall'eurozona, incluso il miglioramento di deficit e competitività dei paesi in quarantena, e l'ottimismo oggi prevalente sulla tenuta dell'euro.

Tregua vera o solo pace armata sui mercati e dentro l'eurozona? In piena sintonia con Draghi sul piano anti-spread strettamente condizionato alle riforme, anche Angela Merkel ha partecipato ieri all'incontro dell'industria tedesca. Dicendo quattro cose: «Sui mercati finanziari c'è un calo di fiducia nella capacità a lungo termine di alcuni Stati di ripagare i debiti. Il mondo si interroga sulla reale competitività dell'eurozona. È prematuro parlare di ricapitalizzazione delle banche attraverso l'Esm prima che la sua struttura sia ben avviata». E per la sorveglianza bancaria unica, meglio procedere «a piccoli passi». In breve, per il cancelliere la svolta pro-euro di mezza estate si ferma dove comincia la solita difesa di presunti interessi nazionali. Messaggio non nuovo ma grave perché piomba su un euro ancora fragile.

In settembre, secondo gli ultimi dati Ue, la produzione di manufatti e servizi nell'eurozona è scesa ai minimi da 39 mesi. I segnali recessivi si accumulano dovunque, anche in Germania. La Grecia è al quinto anno di recessione (-7% nel 2012), la Spagna è al secondo su tre, il Portogallo si avvita, l'Italia retrocede, la Francia scopre la crescita zero.
In questo panorama desolante, continuare a insistere, come fa la Germania, solo su rigore e riforme, dimenticando qualsiasi serio stimolo alla crescita europea, costringendo i Paesi in difficoltà a contare solo sulle proprie forze, significa di fatto condannarli a impoverirsi e a fallire. Prigionieri di debiti inestinguibili e crescenti rispetto a Pil in picchiata.
Senza sviluppo né solidarietà europea, prima o poi, l'insolvenza dell'euro-sud diventa un rischio reale. Le riforme per il recupero di competitività richiedono anni per produrre effetti positivi: in tempi di espansione economica, la Germania ce ne ha messi cinque. Se poi si pretende, come fa Berlino, di temporeggiare anche sull'avvio della sorveglianza bancaria unica da affidare alla Bce (dovrebbe scattare dal 1° gennaio ma nessuno ci crede) e sulla ricapitalizzazione delle banche spagnole via il nuovo Fondo Esm (che consentirebbe il divorzio tra crisi del debito sovrano e bancario evitando a Madrid di accumulare nuovo debito), ci si può legittimamente chiedere se la Merkel non stia ricominciando a giocare con il fuoco per vincere le legislative del settembre 2013.

Presa nella morsa a Nord delle elezioni tedesche e a Sud di tagli e riforme che senza qualche ammortizzatore europeo alla lunga rischiano di rivelarsi esplosivi, la Bce di Draghi da sola non può fare miracoli. Per questo, invece di intentargli "processi", tutti in Germania, industria compresa, dovrebbero giocare la sua partita. Quella dell'euro.

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