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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2012 alle ore 16:49.

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Al-Shabaab, il regno del terrore
Nella costellazione dei gruppi estremisti legati ad al-Qaeda sono loro, oggi, uno dei più organizzati. E fino a pochi mesi fa, prima dell'offensiva kenyota a sud e di quella etiope a occidente, nessun altro movimento poteva esercitare un controllo assoluto su un territorio così vasto: otto regioni su nove della Somalia centro meridionale (fino alla fine del 2011). Un'area più estesa dell'Italia. Nei tempi d'oro potevano contare su almeno due aeroporti e tre porti. E molti campi militari dove erano accorsi centinaia – si parla anche di più di mille – jihadisti stranieri provenienti da Afghanistan, Pakistan, Algeria, Iraq e Yemen. Nessuno altro godeva della loro libertà di movimento. Non le cellule di al-Qaeda in Iraq, che vivono in clandestinità, braccate dai militari americani e dall'esercito iracheno. E nemmeno i talebani che devono fare i conti con il contingente Nato in Afghanistan.

Persa la sua base operativa, e molte altre città negli ultimi mesi, il movimento, che si è ufficialmente fuso con al Qaeda in febbraio, cambierà ora strategia concentrandosi sulla guerriglia. E soprattutto sugli attacchi kamikaze. Gli Shabaab possono contare ancora su un esercito di aspiranti martiri, la micidiale arma di cui si servono per sminare la morte nelle zone controllate dal nemico. Il loro stesso nome – sabba significa la gioventù – non è casuale. Perché sui giovani, spesso bambini strappati alle loro famiglie, sottoposti a un incessante indottrinamento nelle madrasse e poi addestrati nei campi dei mujaheddin, fondano l'ossatura delle loro spietate milizie.

Il primo presidente eletto da 45 anni
La cautela è d'obbligo. Ma i somali, e chi tra gli osservatori internazionali indulge all'ottimismo, comincia davvero a credere che la Somalia abbia voltato pagina. Per la popolazione, esasperata da 21 anni di guerra civile, la caduta di Kismayo è una notizia incoraggiante. E un buon avvio per l'ex attivista dei diritti umani Hassan Sheikh Mohamud, da settembre il primo presidente eletto (da un'assemblea rappresentativa di 275 autorità scelte dagli anziani dei diversi clan) negli ultimi 45 anni. Una nomina inattesa, frutto di una scelta apparentemente democratica, e non di complessi giochi di potere.

La nuova Somalia potrebbe scrollarsi di dosso la nomea di Stato fallito, Una brutta fama che si è guadagnata con il tempo. Dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre, il paese è stato teatro di cruenti conflitti tra signori della guerra, carestie, pirati, fino all'ascesa delle Corti islamiche, nel 2006, un ampio movimento islamico, in cui figuravano personalità moderate ma anche cellule più estremiste come gli Shabaab. E alla successiva guerra degli Shabaab , iniziata nel 2007, contro le truppe etiopi (ritiratesi dopo due anni) e contro il governo somalo di transizione (formato da membri delle Corti islamiche e riconosciuto dalla comunità internazionale). La Somalia, anche la capitale Mogadiscio, resta ancora un luogo molto pericoloso. Gli shabaab riescono con successo a penetrare nelle maglie della sicurezza nazionale.

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