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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2012 alle ore 14:15.

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Con il garbo che, crediamo, ha sempre contraddistinto le nostre osservazioni critiche in uno spirito costruttivo, dobbiamo ribadire che questa situazione lascia disorientati (rispetto a principi sempre difesi in passato) e amareggiati (rispetto alla necessità di mandare un segnale coerente). Può darsi che a risolvere la "grana" ci pensino i giudici, può darsi, cioè, che nelle aule giudiziarie qualche concussione venga trasformata in corruzione, come nel caso di Penati, o che la nuova «induzione» venga considerata in continuità con la vecchia. Può anche darsi che alcuni presunti concussori (gli stessi Berlusconi e Penati) vengano assolti.

Ci sono periodi storici - ricordava un bravo collega scomparso, Giuseppe D'Avanzo - in cui il «quietismo istituzionale» dimentica i principi per i quali si sono fatte battaglie importanti anche grazie a un'opinione pubblica sensibile e informata. Ma i principi valgono sempre e l'opinione pubblica merita sempre rispetto.

Allora, la domanda che da tempo governo, Parlamento, Csm, Anm avrebbero dovuto farsi è: quanti casi-Penati ci sono in giro, meno noti alle cronache nazionali ma non per questo meno odiosi per i comuni cittadini? Se non si vuole innestare la marcia indietro, con umiltà e senso di responsabilità si dovrebbe almeno cercare di «ridurre il danno», come tante volte è stato fatto in passato. Un danno non soltanto per la giustizia ma soprattutto per la fiducia che i cittadini devono recuperare nella politica e nelle istituzioni. Perché questa legge, lo ripetiamo, non è la panacea contro la corruzione ma ha ugualmente un peso enorme, che si misura, più che nelle aule giudiziarie, nel tessuto etico e morale del Paese. È un'occasione da non perdere per dimostrare che qualcosa è cambiato.
La posta in gioco, quindi, è altissima e il realismo politico non può essere né un alibi né uno schermo per giocare la partita. Presto e bene.

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