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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2012 alle ore 08:18.
L'ultima modifica è del 10 ottobre 2012 alle ore 08:45.

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Se la legge elettorale sarà quella di cui si parla in queste ore, con un premio di maggioranza del 12,5 per cento alla coalizione vincente, avremo con tutta probabilità una riforma «usa e getta». Una riforma da impiegare la prossima primavera per la prima e unica volta, giusto perché non sarebbe decente tornare a votare con il «Porcellum». Subito dopo la si potrà abbandonare al suo destino.

Del resto è lo stesso Calderoli, padre della vecchia legge, a ricordare che la nuova bozza non risponde ai criteri fissati dalla Corte Costituzionale perché non indica alcuna soglia minima per accedere al premio di maggioranza. Basterà prendere un voto in più delle coalizioni avversarie, il che è poco rassicurante.

Tuttavia questa riforma dell'ultimora, a sei mesi dalle elezioni, obbedisce agli interessi dei maggiori partiti e spiega qualcosa delle manovre in corso sul palcoscenico romano: a cominciare dal ritiro annunciato da Berlusconi, una mossa che sembra del tutto funzionale allo schema neo-proporzionale che si va affermando. Perché un centrodestra rimescolato e rinvigorito da qualche nuovo innesto, e non più guidato da Berlusconi, sarebbe in grado di recuperare punti nei sondaggi, permettendo al suo architetto dietro le quinte (pur sempre Berlusconi, s'intende) di pesare ancora nella Terza Repubblica.

Ma anche Bersani ha buoni motivi per essere soddisfatto. Il premio di maggioranza autorizza le speranze del Pd, in coalizione con Vendola, di poter gestire da primo attore la fase post-elettorale. Che poi la provvigione di seggi sia sufficiente per governare, si vedrà: dipende dai numeri dell'eventuale vittoria. Se sarà risicata, il premio potrebbe non bastare per dare al paese un governo di sinistra. In ogni caso, per ora Bersani può guardare avanti. E rispondere con un pizzico di spavalderia a una domanda sulla grande coalizione: «non faremo più maggioranze con Berlusconi».

Con Berlusconi, no di certo. Ma un centrodestra rimescolato e diretto da altri, potrebbe riaprire il discorso. Ciò che creerebbe non poche difficoltà a Bersani stesso come già le sta creando a Casini. E qui si vede il tatticismo berlusconiano, cioè il suo tentativo di mascherare una ritirata indotta dalla confusione e dalla mancanza di idee in cui versa il Pdl, in un'iniziativa che ha già messo sul chi vive gli avversari.

Se si trattasse solo di inglobare nel vecchio Pdl, un po' ammodernato, Casini o Montezemolo o altri, l'operazione non avrebbe molto senso. Oppure lo avrebbe, ma solo per la convenienza dell'ex premier. Se viceversa l'iniziativa di Berlusconi acquistasse via via un profilo strategtico, allora potrebbe persino dare il via a una rifondazione del centrodestra. Ma appunto di questo dovrebbe trattarsi: una sorta di rivoluzione politica e morale negli assetti e nel costume del partito ex berlusconiano.

Siamo molto lontani da un tale punto d'arrivo. La vicinanza delle elezioni e forse l'imminenza di una nuova legge elettorale (ma non va sottovalutato il contrasto sulle preferenze), fa pensare piuttosto a un grande gioco di prestigio. In tal caso servirebbe a poco appellarsi a Mario Monti. Certo, alla vasta area moderata in cerca d'autore conviene aggrapparsi al presidente del Consiglio. Ma questi vorrà verificare se è in corso o no una vera rifondazione di quel mondo. E al momento non se ne vede traccia.

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