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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2012 alle ore 16:08.
L'ultima modifica è del 14 ottobre 2012 alle ore 16:38.

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Una ventata di indignazione collettiva ha portato a spazzar via buona parte dell'autonomia regionale e a farlo con strumenti istituzionali che soltanto un anno fa nessuno avrebbe osato sostituire all'autodisciplina delle stesse Regioni. È un fatto di enorme portata, che va ben oltre la cronaca politica ed entra nella storia d'Italia, specie dopo le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità, nel corso delle quali se una conclusione era stata (quasi) pacifica era quella che definiva il regionalismo di Carlo Cattaneo una visione forse irrealizzabile al suo tempo, ma di sicuro più adatta del centralismo all'Italia di oggi.
Perché questa conclusione viene ora smentita? Perché l'Italia è il paese sbagliato per il regionalismo o perché é sbagliato il regionalismo-federalismo che si è cercato di introdurre in Italia?
Com'è noto, di federalismo si è cominciato a parlare a proposito della riforma del titolo V, voluta nel 2001 dal centro-sinistra e oggetto oggi del disegno di legge costituzionale del Governo volto a ridimensionarlo, ottimamente presentato su Il Sole di venerdì da Francesco Clementi. Personalmente non ho mai interamente condiviso quella riforma anche se, con scarsa conoscenza della storia, viene attribuita a me, perché era in carica il mio secondo governo quando essa fu approvata. Il mio governo in realtà poté solo tenersene fuori, ma non fermare la maggioranza, che era ormai politicamente guidata dal candidato premier da essa scelto per le imminenti elezioni.

Certo si è che con quella riforma si ampliarono molto le competenze regionali e si dette occasione a troppi processi o di co-decisione fra più livelli istituzionali, o di decisioni plurime, affidate separatamente a ciascuno. I primi furono fonte di ingorghi paralizzanti, i secondi di esperienze labirintiche per i cittadini. Si aggiunse più di recente la stagione del federalismo fiscale, che creò ulteriore confusione. Doveva essere, nelle intenzioni, la realizzazione di un disegno volto in primo luogo a restituire ai territori la gestione delle entrate tributarie e dei beni pubblici afferenti a ciascuno di essi. Ma le leggi e i decreti che furono adottati a questo fine si incrociarono con le esigenze sempre più severe del risanamento finanziario, che spingevano all'opposto verso un crescente centralismo.
Ne uscì una contraddizione che minò l'intera costruzione, perché da una parte si disegnava un futuro di ampio decentramento, dall'altro si ribadiva nella finanza regionale e locale il carattere prevalente di finanza di trasferimento, in modo da conservare il controllo sull'entità della spesa aggregata. Il risultato fu un federalismo fiscale che non era tale e un centralismo finanziario costretto in più casi a una sorta di corsa ad ostacoli per raggiungere i suoi obiettivi. Un esempio? L'intento di alienare i beni pubblici allo scopo di ridurre il nostro debito totale si scontra oggi col fatto che, nel frattempo, la proprietà di una gran parte di essi è stata trasferita dallo Stato agli enti locali. Realizzarlo significa perciò coinvolgere oltre ottomila proprietari (ai quali quei beni erano stati trasferiti per soddisfare le loro finalità, non per ripagare il debito dello Stato).

Non so se - come in tanti hanno scritto - c'è stata davvero una sbornia di federalismo. C'è stata di sicuro una compulsione ad accettarlo in modo acritico. Ricordo assai bene il silenzio gelido che seguì a un mio articolo, nel quale esprimevo i miei dubbi sull'opportunità, per l'Italia, di passare da una giusta valorizzazione delle autonomie regionali a un vero e proprio federalismo, che nascesse per di più con intenti, se non di divisione, di ridotta solidarietà nazionale. Detto questo, è mia convinzione che la nave delle nostre autonomie (regionali o federali che siano) è finita sugli scogli non tanto per l'eccesso, che pure c'è stato, delle competenze loro attribuite, quanto per lo spirito che troppo spesso ne ha segnato l'esercizio, in molti casi la impermeabilità alle responsabilità comuni, in altri la vera e propria ubris appropriativa nella gestione dei mezzi finanziari a disposizione.
Basti pensare alle tante volte in cui la rivendicazione delle proprie prerogative ha portato o al veto paralizzante o al contenzioso costituzionale davanti a disegni di interesse nazionale che necessariamente coinvolgevano sia lo Stato che la Regione Oppure a ciò che di recente è accaduto in talune Regioni, dove di fondi pubblici affidati alla gestione di organi autonomi come i gruppi parlamentari si è fatta carne di porco.

Se è così, ha perfettamente ragione Romano Prodi, che su Il Messaggero del 7 ottobre scorso ha messo al primo punto il ritorno all'etica attraverso la riforma, prima ancora che delle leggi, della mentalità, della cultura e del costume. Il che ci richiama ad una delle grandi verità, che accompagnano la storia e l'analisi delle forme di governo democratiche sin dai loro albori, una verità già enunciata da Aristotele, ripresa più di recente da Tocqueville e poi ribadita da padri e cultori delle democrazie contemporanee, da John Dewey a Ernst Boeckenfoerde. Le democrazie vivono solo se accompagnate dalla virtù e senza la virtù, che è però impossibile imporre con la coercizione dei mezzi legali, esse sono condannate a degenerare e ad essere soppiantate da forme di governo autoritarie e centraliste.
L'attenzione dovrebbe andare allora ai fattori che hanno così tanto ridotto la forza dell'etica e del sentimento del bene comune nell'Italia di questi decenni e favorito l'ingresso nelle elite dirigenti di personale che ne è così poco provvisto. Mentre è illusorio cercare il rimedio nelle sole riforme istituzionali, giacché, per dirne una, in un sistema di governo che rimanga multilivello non si troverà mai un riparto di competenze che eviti la necessità in più casi di un loro esercizio comune e quindi di un intesa in vista di un fine comune.

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