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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2012 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 11 novembre 2012 alle ore 15:51.

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Dopo le prime reazioni, vediamo invece le lezioni fornite a noi, noi italiani e noi europei, dal voto americano del 6 novembre. La lezione numero uno è per noi italiani e ci invita a smetterla di decantare la migliore qualità (rispetto al nostro) del sistema istituzionale americano, che consente agli elettori di sapere subito dopo il voto chi li governerà nel quadriennio successivo.
Sì, quegli elettori sanno subito chi sarà il loro Presidente, ma se contemporaneamente hanno eletto un Congresso nel quale la maggioranza va al partito opposto a quel Presidente, quest'ultimo dovrà quotidianamente negoziare con quella maggioranza le sue misure e ne uscirà o un governo condiviso o un governo addirittura bloccato. Né si tratta di un caso eccezionale, giacché è quello che è capitato a più presidenti prima di Obama, a lui durante il suo primo mandato e gli sta ricapitando ora dopo queste elezioni. La differenza dal nostro sistema non offre perciò particolari motivi di invidia, tanto più che i nostri governi dispongono dell'arma della fiducia, che non c'è negli Stati Uniti, e possono imporre (c'è chi ritiene anche troppo) la propria volontà al Parlamento con maxiemendamenti e decreti, che penso alla Casa Bianca guardino, loro sì, con invidia.

Sia chiaro, noi ne abbiamo tante di cose da aggiustare nella nostra forma di governo e sarà bene che lo facciamo con qualche idea chiara in testa. Mentre gli ondeggiamenti senza bussola ai quali assistiamo nei tentativi di riforma della legge elettorale dimostrano che per il momento di sicuro non è così. Ma non partiamo dalla premessa che l'erba del vicino è sempre più verde e che possa bastarci importarne un po'.
Il che ci porta alla lezione numero due. Nei mesi scorsi Washington ha ansiosamente monitorato i rischi promananti dall'eurozona per la crescita e la stessa stabilità dell'economia mondiale e per questo Obama ha ricevuto e chiamato i nostri leader. Ebbene ora dovremo noi seguire le vicende americane esattamente per gli stessi motivi.
Il rieletto Presidente ha infatti davanti a sé una brutta gatta da pelare e se non riesce a farlo già nelle prossime settimane, gli Stati Uniti potrebbero cadere in una pesante recessione, che si cumulerebbe alla nostra con effetti disastrosi su tutti noi. Ci riuscirà con il Congresso che si trova davanti?

Sta entrando in questi giorni nel lessico comune la locuzione "fiscal cliff", che si avvia ad affiancare lo spread fra le fonti dei nostri incubi diurni e notturni. Si tratta del precipizio (cliff, che alla lettera vuol dire roccia scivolosa a perpendicolo), nel quale gli Stati Uniti possono scivolare se a gennaio diventeranno operative le misure imposte mesi fa dai repubblicani per spingere a un'azione vigorosa sul debito. Tali misure, se non rimpiazzate, comporteranno la automatica adozione di tagli di spese e di aumenti fiscali a carico dei ceti medi, che farebbero sparire oltre 600 miliardi dall'economia e le darebbero un colpo che finirebbe, come l'onda di uno tsunami, per attraversare gli oceani.

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