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Questo articolo è stato pubblicato il 13 novembre 2012 alle ore 08:37.
L'ultima modifica è del 13 novembre 2012 alle ore 08:38.

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La svolta dell'inchiesta giudiziaria italiana sulle agenzie di rating non è né velleitaria né isolata.
La crisi finanziaria europea ha fatto cadere molti tabù e luoghi comuni e fra questi vi è l'immunità delle agenzie di rating che aveva resistito alle polemiche, anche violente, che si sono sempre più intensificate almeno a partire dalla crisi dei Paesi del Sud-est asiatico di fine anni Novanta.

Da allora, tutti i principali settori soggetti a rating (Paesi sovrani, banche, imprese, titoli strutturati) hanno rivelato carenze molto gravi. Un rapporto del Senato americano pubblicato nell'aprile 2011 afferma testualmente che «l'aver attribuito in modo inaccurato il giudizio AAA ai titoli strutturati ha introdotto un elemento di rischio nel sistema finanziario americano, costituendo una causa fondamentale della crisi finanziaria. Inoltre i downgrading di massa nel mese di luglio, che non avevano precedenti in numero e ampiezza, hanno fatto precipitare il collasso dei titoli Rmbs e Cdo sul mercato secondario e forse più di ogni altro evento hanno segnato l'inizio della crisi».

Queste parole fotografano il mutamento dell'atteggiamento del mondo politico e dei regolatori nei confronti delle agenzie di rating. Fino ad allora, queste ultime erano riuscite a sottrarsi sia alla regolamentazione sia alla responsabilità giuridica (civile prima ancora che penale) basandosi sul fatto che i loro erano semplici giudizi proiettati nel futuro e appellandosi addirittura alle garanzie costituzionali e in particolare alla libertà di espressione e di stampa. Fino a quando un giudice americano non mise in evidenza un piccolo particolare: mentre un giornale tratta ogni emissione di titoli ritenuta degna di un commento, un'agenzia di rating esprime un'opinione solo su quelle dei suoi clienti, che per di più pagano profumatamente.

Negli ultimi anni si sono quindi moltiplicate le iniziative per modificare completamente il quadro complessivo in cui operano le agenzie di rating, introducendo innanzitutto un regime di supervisione più stringente. L'Europa ha colto l'occasione per introdurre proprio in questo settore una competenza esclusiva a livello europeo, che costituisce indubbiamente un passo avanti importante. Il problema è che la supervisione su una materia così sfuggente è molto difficile.

Certo, si possono in futuro evitare negligenze clamorose, come quelle delle agenzie che al profilarsi della crisi aggiornarono le probabilità di rischio solo per le nuove emissioni (pagate) e non per quelle vecchie, i cui rating vennero così aggiornati con grave ritardo. Ma per il resto, è illusorio pensare che la supervisione, per quanto occhiuta, su metodi e procedure possa introdurre l'indipendenza di giudizio che rappresenta la vera garanzia di efficienza dei rating. Le molte criticità che ancora si riscontrano nel campo dei revisori contabili o delle fairness opinion espresse dalle banche di investimento dimostrano che questi soggetti, ancorché regolamentati e sorvegliati, sono spesso "indipendenti" come l'onesto sceriffo di Prima pagina di Billy Wilder. Solo fra virgolette.

L'altra strada che la regolamentazione intende percorrere è quella di depotenziare il rating. In effetti, l'enorme potere di cui oggi godono le agenzie è anche figlio di tutte le disposizioni (dai regolamenti dei fondi comuni, alle disposizioni in materia di garanzie accettabili, ai requisiti di Basilea sui requisiti patrimoniali) che fanno riferimento al rating e ovviamente attribuiscono uno status superiore ai titoli che ottengono i giudizi più alti. Si cerca quindi di responsabilizzare di più i singoli soggetti e basare le scelte di investimento (o il capitale delle banche) sulle autonome valutazioni dei singoli soggetti. Ma anche questa non è una strada facile, sia perché molti operatori trovano molto comodo adagiarsi sulle valutazioni di un soggetto cui eventualmente addossare le colpe quando le cose si mettono male, sia perché proprio i problemi di applicazione di Basilea hanno già dimostrato (al di là di ogni ragionevole dubbio, visto che siamo in tema giudiziario) che i modelli interni delle banche non sono necessariamente migliori di quelli delle agenzie.

Resta un'altra strada, che è appunto quella della responsabilità giuridica. Sia ben chiaro che ogni vicenda è una storia a sé e su quella italiana non è possibile esprimere alcun giudizio. Ma è significativo che proprio pochi giorni fa la Corte federale australiana abbia emesso una sentenza che mette in evidenza le gravi negligenze di un'agenzia di rating nella valutazione di complessi prodotti strutturati acquistati da enti locali. La ponderosa motivazione mette in evidenza gravi elementi di negligenza e di collusione con la banca emittente (cioè il cliente che pagava per il servizio) che scacciano il fastidioso sospetto che nel giudizio abbia influito solo il senno del poi. Ma soprattutto stabilisce il principio fondamentale, cruciale nel diritto anglosassone, che vi era una relazione fiduciaria (fiduciary relationship) fra l'agenzia e l'investitore e dunque che vi sono le basi per un'azione di richiesta di danni.

Insomma: che si tratti del danno arrecato agli investitori (come nel caso australiano) o delle informazioni fuorvianti (come presumibilmente sostenuto dal magistrato italiano) le agenzie di rating rispondono al mercato. Non possono certo né gridare al complotto (l'asse Trani-Sidney appare quanto meno improbabile) né trincerarsi dietro lo schermo della libertà di opinione che le ha per tanto tempo protette. È il prezzo da pagare per l'enorme importanza che i loro giudizi ora rivestono o, se si preferisce, la contropartita dei lauti profitti dell'ultimo ventennio.

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