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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 07:39.

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La crisi dell'euro è in stand-by. I mercati restano sostanzialmente alla finestra nonostante i segnali negativi non cessino di accumularsi dentro e fuori dal club della moneta unica.

Il rigore a senso unico, lo confermano anche le ultime previsioni di Bruxelles, non produce i risultati sperati ma, come si è visto ieri in ben 23 Paesi dell'Unione su 27, crescenti disordini e tensioni sociali: perché esaspera recessione e disoccupazione vanificando gli sforzi per un durevole e solido risanamento dei conti pubblici, mentre il recupero di competitività rimane tutto di là da venire. Per questo, condannata alle fatiche di Sisifo la Grecia, cui si continuano a far sospirare gli aiuti, resta per i partner un fattore di rischio e di instabilità permanente.
I negoziati sulla sorveglianza bancaria unica da affidare alla Bce, snodo fondamentale per sbloccare gli aiuti Esm a banche e Stati rompendo il legame perverso tra debiti sovrani e bancari, si trascinano in alto mare. Dopo l'ultimo Ecofin, nessuno si illude più sul raggiungimento di un accordo a fine anno. Insieme a un pugno di Paesi, la Germania si è messa di traverso. Ci vorranno altri mesi. Forse bisognerà aspettare l'esito delle elezioni tedesche del settembre 2013. Se nel frattempo la Spagna o altri batteranno cassa, dovranno anche rassegnarsi a veder lievitare ancora il proprio debito. Con tutte le controindicazioni del caso.

Mancano i fondi per finanziare alcune politiche correnti ma anche le trattative sul bilancio Ue 2012 e 2013 sono in panne. Il vertice europeo straordinario, convocato la settimana prossima a Bruxelles per trovare l'intesa sul finanziamento pluriennale dell'Unione (2014-20), potrebbe concludersi con un altro rinvio, ancor prima che con ambizioni comuni ridotte sotto i minimi termini. Tanto che ieri l'Italia ha respinto ad alta voce l'ultima proposta di compromesso, densa di tagli di spesa troppo punitivi.
E come se disagio e malanimi intra-europei non fossero già abbastanza scatenati, ora dentro l'eurozona rischia di saltare senza più ritegno l'asse franco-tedesco sulla questione francese, cioè sul problema del rapido declino economico-industriale della seconda economia dell'area.

Non a caso l'altro ieri, in margine all'Ecofin, si è precipitosamente celebrata la conferenza stampa congiunta Schäuble-Moscovici. Non a caso oggi il premier Jean-Marc Ayrault vola a Berlino. «Mi rifiuto di chiamare la Francia il malato d'Europa. Abbiamo fiducia nel Paese» ha cercato di tagliare corto Wolfgang Schäuble a Bruxelles. Più facile da dire che da fare dopo le reprimende di Ocse e Fmi e dopo che nei giorni scorsi in Germania "Die Welt" si interrogava su «il presidente François Hollande senza bussola» e la popolare "Bild" titolava in prima pagina «Sarà la Francia la nuova Grecia?».
Risparmiata a lungo dagli assalti dei mercati grazie alla garanzia implicita di "Merkozy", la Francia socialista di Hollande, che con il cancelliere tedesco non è mai entrata in gran sintonia, si ritrova improvvisamente nuda: un Paese come gli altri, dai conti pubblici disastrati e in forte perdita di competitività. Quindi richiamato all'ordine come tutti per il bene dell'euro. Anche perché ormai privo della comoda "copertura" di Spagna e Italia convertite alla disciplina.

«La Francia parla il linguaggio del Nord ma attua politiche del Sud. Da 10 anni la Germania si riforma, la Francia no. Negli ultimi 20 anni i tedeschi hanno dimezzato i funzionari pubblici, i francesi li hanno aumentati del 35%. Con il cancelliere Schröder i tedeschi accettarono di lavorare di più a salari bloccati, la Francia scelse le 35 ore. Risultato, oggi i francesi lavorano 8 settimane meno dei tedeschi» denunciava tempo fa l'eurodeputato francese (Ump) Alain Lamassoure.
Nella scala della competitività del World Economic Forum la Germania è al 6° posto, la Francia al 21°. Oggi esporta meno dell'Olanda che ha poco più di un quarto della sua popolazione.

Accusa un buco da 70 miliardi (dati 2011) nella bilancia commerciale contro un surplus tedesco da 160 miliardi. Con la disoccupazione al 10,3% contro il 5,5% della Germania, 3 milioni di senza lavoro, il record dal 1999, Parigi appare sempre più lontana da Berlino anche se si guarda al livello di spesa pubblica (56,3% del Pil contro il 45,2%), di deficit (4,5% contro lo 0,2%) e di debito pubblico (90% e in crescita contro 81,7% ma in discesa).
Il lento divorzio economico-finanziario tra i due Grandi dell'euro non è una faccenda bilaterale ma, in prospettiva, un'autentica emergenza collettiva. Che tocca direttamente anche la tenuta della moneta unica. E non per i mai rimpianti direttorii che furono. Ma per il venir meno della dialettica e delle mediazioni necessarie a tenere insieme la variegata famiglia europea. Del resto il regolare sfilacciamento degli accordi presi, gli arroccamenti sugli interessi nazionali, la vista sempre più corta dei Governi sono tutti espressione del malessere diffuso, di una convivenza sempre più difficile.

«La France c'est l'Europe»: la politica europea di François Mitterrand, l'altro presidente socialista, era chiarissima. Non a caso raggiunse i suoi obiettivi. Non si capisce ancora, invece, quale sia quella di Hollande. Anche se è chiaro che, nell'inazione francese, la Germania resterà sola a fare l'Europa senza ammortizzatori. O almeno a provarci, esasperando dovunque i sentimenti anti-europei. E non solo nelle piazze.

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