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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2012 alle ore 07:06.
L'ultima modifica è del 23 novembre 2012 alle ore 07:07.

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Oltre due miliardi di sgravi per il salario di produttività per il periodo 2013-2015 indicano da soli l'altezza della posta in una stagione di crisi profonda, dove consumi e domanda interna ricordano flessioni da tempi post-bellici. Sarebbe però sbagliato, per dare il senso e le prospettive dell'intesa sulla produttività, fermarsi a questo pur importante numero che in definitiva apre le porte a buste paga più pesanti. Dietro questa cifra messa sul piatto dal Governo Monti c'è infatti il ruolo che le parti sociali hanno giocato, e stanno giocando, in questo momento di transizione emergenziale che l'Italia affronta. E qui il tema si allarga.

Colpisce ovviamente che la Cgil non abbia sottoscritto l'accordo: continuano le "dure repliche della storia", verrebbe da dire parafrasando Norberto Bobbio, grande coscienza critica della sinistra. Ma colpisce soprattutto la ripresa d'iniziativa delle parti sociali che quasi all'unanimità, e con la spinta forte e riconosciuta della leadership confindustriale (che aveva già proposto di rinunciare agli incentivi in cambio di una riduzione immediata delle tasse), ha aperto un capitolo nuovo.

Una ripresa d'iniziativa da libro non dei sogni ma realista, consapevole che bisogna scendere al piano della vita delle aziende per trovare, in una diversa e più moderna articolazione delle relazioni industriali, gli spunti per ripartire. Come dimostra del resto l'innovativo "welferismo" aziendale affermatosi quasi in silenzio negli ultimi anni, con piena soddisfazione dei lavoratori (e delle loro famiglie), e degli imprenditori.

Nel Paese che storicamente fa un' enorme fatica a cambiare e a darsi obiettivi ambiziosi e condivisi, ciascuno facendo il suo mestiere, è sempre stato più facile raggiungere accordi consociativi e più "piatti". Oggi c'è chi osserva che bisognava fare molto di più sul tema del rilancio della produttività e chi, addirittura, parla di "scempio" dei diritti e di "truffa".

Non la pensa così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, una vita e una storia di sinistra, che giudica l'intesa "importante" ed auspica che anche la Cgil possa aderire all'accordo. E del resto i dati sulla produttività negli ultimi vent'anni (nel 1993, ai tempi del Governo Ciampi, ci fu il grande patto sociale per la stabilizzazione della politica dei redditi in chiave antinflazionistica) mostrano il profilo di un'Italia quasi imbalsamata e chiusa a riccio.

I risultati, basta guardare all'ormai famoso cuneo fiscale e ai confronti internazionali sui livelli di competitività (a partire dalla Germania che dopo le riforme ha visto forti aumenti della produttività), sono sotto gli occhi di tutti e ben visibili anche nei portafogli in termini di ridotto potere d'acquisto.

Naturalmente un accordo non è una bacchetta magica. Ma vanno, infine, notati due punti. Il primo. Si mette in moto un processo che aumenta il peso della contrattazione di secondo livello e una diversa organizzazione del lavoro che chiama in causa anche le imprese, chiamate esse stesse a riorganizzarsi, a investire nel rinnovamento degli impianti e, se necessario, a reinventare la loro presenza sui mercati.

Secondo. In un momento tra i più difficili della storia repubblicana, nel bel mezzo di una crisi sistemica dei partiti e sulla soglia della campagna elettorale, l'intesa sulla produttività tra le parti sociali e con il Governo è un ancoraggio solido e un'assunzione di responsabilità da classe dirigente. Davvero è buon risultato.

twitter@guidogentili1

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