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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2012 alle ore 08:50.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2012 alle ore 08:56.

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Rinvio doveva essere. E rinvio è stato. Senza accordo né drammi, come più o meno era programmato.

Il vertice Ue sul bilancio pluriennale 2140-20 si è aggiornato al l'inizio dell'anno prossimo. Secondo un copione che ormai rischia di diventare, o perlomeno di apparire, una politica deliberata: dagli aiuti alla Grecia alla vigilanza bancaria unica, alle regole per accedere all'Esm, l'Europa annuncia decisioni, fissa persino i calendari ma poi con metodo ne rimanda regolarmente l'attuazione.

Non è stato un vertice inutile quello che ieri e l'altro ieri ha raccolto a Bruxelles i 28 leader (con la Croazia) dell'Unione. Ha consentito di fare qualche progresso nello sforzo di riequilibrare la partita del dare e dell'avere per meglio redistribuire le risorse tra gli Stati membri e arrivare al grande mercanteggiamento conclusivo tra fine gennaio e i primi di febbraio. Ma i passi avanti non sono stati sufficienti. Ci sarà ancora spazio e tempo per litigare e mediare.

Per tutti, Italia compresa, il risultato finale della trattativa resta dunque incerto. Tanto più che, ha chiarito a fine vertice il presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy, «si potrà andare oltre gli 80 miliardi di tagli già fatti ma con equilibrio e grande attenzione». Già, perché Gran Bretagna, Germania, Olanda e Svezia ne pretendono di più, almeno altri 20 se tutto andrà bene.

Tra i segnali di fumo in parte ancora da decifrare, uno è emerso ieri più chiaro di tutti: neanche il prossimo bilancio pluriennale dell'Unione farà la rivoluzione. Si limiterà a tenere il passo con la tradizione continuando a privilegiare il finanziamento delle politiche del passato a scapito di quelle del futuro. La Commissione Ue nella sua proposta ci aveva provato a dare una forte spinta agli stanziamenti per la crescita e la competitività, per la ricerca e l'innovazione, per la costruzione di reti europee per trasporti, energia, comunicazioni. Facendo scandalo aveva osato aumentare del 350%, da 8 a 36 miliardi, gli investimenti nelle infrastrutture. «Certi aumenti erano tali che i tagli attuali non cambiano la strategia» ha risposto placido Van Rompuy a chi gli chiedeva conto di scelte per molti aspetti anti-storiche.

Sono anni che il modello europeo e l'industria europea perdono quote sul mercato globale. La concorrenza non perdona: quella cinese e asiatica sono sempre più aggressive. La crisi finanziaria e la crisi dell'euro portano recessione e disoccupazione, rendono urgenti ristrutturazioni industriali e non. Cioè riforme e sacrifici sempre più pesanti che penalizzano la crescita, erodono le speranze nel futuro.

Non a caso il vertice europeo del giugno scorso, vincendo le resistenze tedesche, aveva varato un piano per la crescita da poco più di 120 miliardi per 27 Paesi, più che altro riallocando fondi Ue esistenti. Operazione di immagine più che di sostanza tanto che l'iniziativa resta più o meno lettera morta. Ora però ci si prepara a fare di peggio. Ridotto del 2% in termini reali (a 973 miliardi, pari all'1,01% del Pil Ue), il prossimo bilancio pluriennale rispetto all'attuale (2007-13), Van Rompuy per rendere meno indigesti i suoi tagli da 80 miliardi ha ritenuto di alleggerire le penalizzazioni per agricoltura (11 miliardi di meno) e coesione (10,6) rovesciandole in larga parte sulle nuove politiche Ue. E così alle grandi reti sono stati sottratti 5 miliardi. Ai programmi di ricerca e sviluppo altri 8.

Alla vigilia del vertice José Barroso aveva ricordato davanti all'Europarlamento che «togliere un miliardo a Horizon 2020 significa privare 4mila piccole e medie imprese dei finanziamenti Ue a sostegno di R&S». Di questi tempi in cui il credito non è facile per nessuno, i cervelli fuggono dall'Europa e la competitività è una china difficilissima da risalire senza la forza dell'innovazione, sono scelte autolesioniste. Che spiegano perché l'economia europea non riesce a ripartire e anche perché, secondo l'Ocse, ha davanti, quando arriverà, un futuro di crescita strutturalmente anemica.

Non ha torto il presidente del Consiglio Mario Monti quando sottolinea, come ha fatto ieri, che comunque «anche le politiche agricole e di coesione sono strumenti di crescita». Peccato che non bastino. Peccato che l'Europa non perda mai occasione per confermarsi un colosso fragile e invecchiato, sclerotico nei progetti, nelle politiche, nelle ambizioni comuni quando ci sono (sempre di meno).

Ma perché non sfruttare a fondo la massa critica continentale per vincere la sfida della globalizzazione con Cina & Co? «Perché i soldi si spendono molto meglio a livello nazionale che europeo» risponde senza esitare un diplomatico nordico. La stessa voglia di rinazionalizzazione, che da tempo morde il mercato unico, assedia anche il futuro bilancio Ue. E così l'Europa avanza a ritroso. E nemmeno si accorge di tutto quello che perde. L'anno scorso, secondo il World Wealth Report, ha bruciato il 13,6% della sua quota di ricchezza patrimoniale su scala globale. La Cina l'ha accresciuta del 2,8%. Gli Stati Uniti dell'1,9%. La fetta europea è stata pari al 90% del totale perduto nel mondo.

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