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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2012 alle ore 08:18.
Stavolta non c'è equivoco. La scelta della Procura di sequestrare il poco prodotto finora dall'Ilva di Taranto significa una cosa sola: l'impianto pugliese, il più grande d'Europa, non può stare in funzione. Ergo, deve chiudere. E se il management ha fatto sapere che chiuderà, c'è poco da gridare allo scandalo.
È una presa d'atto, dopo mesi di battaglia legale per arrivare a una gestione parallela della bonifica e del parziale funzionamento degli impianti.
Non c'è terreno per mediazioni a Taranto. Non c'è mai stato. Nemmeno se a tentarle era il primo vero responsabile della politica ambientale nazionale, il ministro dell'Ambiente Corrado Clini. L'Autorizzazione integrata (Aia), definita dopo settimane di consultazioni con gli esperti e dopo un attento esame dei dati forniti dal ministero della Sanità, per la Procura è stata da subito carta straccia.
Ha fatto bene Palazzo Chigi a intervenire con tempestività. La materia, data la rilevanza, non può non approdare sulla scrivania del premier. La vicenda tarantina si intreccia, ora dopo ora, con il tema più grande della "questione industriale" per un'Italia alla rincorsa della competitività persa e di investimenti esteri, tanto preziosi quando finora (molto) diffidenti. Qual è il messaggio che da Taranto mandiamo a chi ci guarda per decidere se vale la pena di investire da noi?
La certezza del diritto su un tema tanto sensibile quanto è la politica di tutela ambientale, non può essere oggetto di scorrerie e di risse interpretative. Né può essere così vulnerabile il potere Esecutivo laddove decida di fissare le linee strategiche della politica industriale e ambientale. Non c'è certezza delle responsabilità; non c'è certezza del diritto; non c'è interpretazione univoca sui dati sanitari che hanno dato origine alla guerra della Procura contro l'Ilva in nome della difesa della vita.
Nessuno nega il problema dell'inquinamento. Ma non bisogna nemmeno negare che negli ultimi anni è già stato fatto molto rispetto a un passato di deregulation selvaggia e insensibile: ora servirà uno sforzo ulteriore, da parte della famiglia Riva, delle istituzioni locali e nazionali, dell'Europa. La vicenda, va da sé, resta delicatissima.
Ha aspetti giudiziari penali ancora da chiarire e che dovranno essere chiariti fino in fondo. Ha un tragico carico di angoscia per chiunque abbia a cuore il diritto assoluto della tutela della salute e della vita.
Ma rappresenta uno spartiacque epocale nella definizione della "questione industriale italiana". Non può essere la crociata di una procura o di pochi magistrati a decidere quale debba essere la sorte di uno dei siti produttivi più strategici per la politica industriale del Paese. I dossier sanitari devono tenere conto del tempo necessario a maturare le patologie e delle modifiche intervenute, nel corso degli anni, nella gestione delle bonifiche al sito pugliese. Non possono bastare poche ordinanze imperative – quand'anche stilate in buona fede e secondo coscienza – a decidere la sorte di 15mila addetti, di altrettante famiglie e di quasi due terzi della intera produzione di acciaio dell'Italia.
La chiusura dell'Ilva di Taranto pregiudica il lavoro a Cornigliano, Novi Ligure e Racconigi. E non solo. Fa la gioia di una concorrenza europea che vede soccombente, per ragioni non di mercato, uno dei principali competitor continentali. Una manna per i gruppi tedeschi e francesi. In Francia, tra l'altro, lo Stato è così consapevole del valore strategico della siderurgia da non esitare a invocare la nazionalizzazione di due impianti che non trovano compratori perchè poco competitivi (e inquinanti). L'occupazione prima di tutto: i transalpini dicono senza complessi ciò che a Taranto è impossibile anche sussurrare. Eppure quel polo resta cruciale in un Mezzogiorno dove la disoccupazione giovanile riguarda oltre il 30% dei ragazzi.
Politica ambientale e politica industriale vanno insieme nella via razionale dello sviluppo sostenibile. Per questo serve l'intervento di Palazzo Chigi: Taranto può cambiare faccia restando città d'industria, come Trieste, come è accaduto per Torviscosa, come potrebbe accadere per Priolo, Gela, Porto Torres, Porto Margera solo per citare alcuni dei siti che potrebbero essere oggetto di un programma nazionale di riconversione o, meglio, di valorizzazione della sostenibilità. Programma nazionale e programma europeo naturalmente. Altrimenti, l'alternativa è lasciare l'impianto tarantino al suo destino di smantellamento e di morte. Una scia infinita di ruggini e di esalazioni in una città senza più lavoro che tutto sarebbe tranne che ecologica e salutare.
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