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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2012 alle ore 07:02.
L'ultima modifica è del 12 dicembre 2012 alle ore 07:40.

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Con la campagna elettorale appena cominciata il bilancio di Silvio Berlusconi è già molto negativo, per non dire disastroso. L'isolamento dell'ex premier è totale in Europa, in forme mai sperimentate in passato.
Non ci sono solo i toni sferzanti della stampa e l'ostilità unanime delle cancellerie: c'è soprattutto la condanna arrivata dal Partito Popolare Europeo, la formazione sovranazionale di cui Berlusconi un tempo era un socio autorevole e che oggi di fatto lo ha disconosciuto.
Ancora. Il Pdl è frantumato e sull'orlo della scissione, non solo in Italia ma soprattutto al Parlamento di Bruxelles, dopo l'addio del capogruppo Mauro. A loro volta la Chiesa e il mondo cattolico hanno assunto una posizione di totale chiusura verso questo bizzarro «ritorno in campo»: lo confermano al di là di ogni dubbio le dichiarazioni del presidente della Cei, Bagnasco, e i commenti di «Avvenire». Ma anche gli ambienti di Comunione e Liberazione, un tempo alfieri del berlusconismo, oggi sono spietati. Come ha detto il direttore di «Tempi», Amicone, il solo nome dell'ex premier evoca «delusione e rabbia» in tutti coloro che un tempo avevano creduto in lui. La frattura non potrebbe essere più profonda.

Si potrebbe continuare. L'intesa con la Lega, asso nella manica berlusconiana, è in alto mare. Maroni non ha voglia di farsi ingabbiare in un patto di Arcore se il candidato premier fosse davvero lui, il vecchio leader che sogna un altro, irrealistico 1994. Il capo leghista è pronto ad allearsi di nuovo con il Pdl, in Lombardia e altrove, ma chiede un volto nuovo per Palazzo Chigi.
E dunque: l'Europa, il Ppe, gli scissionisti del Pdl, la Lega. Non c'è un solo fronte che sia favorevole a Berlusconi. Come se non bastasse, la sua strategia in vista delle elezioni fa acqua da tutte le parti. Per sfuggire al peso dell'isolamento, è indotto a scivolare sempre di più lungo la china di un populismo deteriore. La frase sullo "spread" («ma cosa ce ne importa?») non è una battuta sbagliata: è un'uscita obbligata dalle circostanze perché solo così Berlusconi può trovare il consenso di un certo tipo di elettorato. Lo stesso che in Francia può votare Marine Le Pen o in Gran Bretagna il nazionalista Nigel Farage. Entrambi esponenti di correnti minoritarie e, peraltro, nessuno dei due gravato dai conflitti d'interesse che il loro omologo italiano si porta dietro.

La domanda è se Berlusconi è in grado di reggere il ruolo che egli stesso si è scelto nella campagna. Certo, il suo obiettivo non è vincere, è ovvio, bensì garantirsi un potere contrattuale nella prossima legislatura. Ma a quale prezzo? Man mano che Monti occupa il centro della scena e interpreta la posizione europeista, Berlusconi sarà costretto ad andare a destra, assumendo toni sempre più nettamente contrari all'Europa. Siamo già al complotto tedesco ai danni dell'Italia e magari alla denuncia dei poteri forti finanziari che tramano contro il leader carismatico pronto a smascherarli.
La risposta molto dura che il governo di Berlino ha riservato ieri a Berlusconi dimostra che per lui non esiste più una via di ritorno. L'Europa ha cancellato l'ex premier italiano, lo vede solo come un elemento di disturbo e d'inquinamento. In altri tempi Berlusconi avrebbe tratto vantaggio, in termini elettorali, dall'essere attaccato con tanta virulenza dai governi stranieri. Ma oggi non è più così. Sulla scena c'è solo un uomo isolato e disperato. La logica e il buonsenso dovrebbero suggerirgli di ritirarsi, passare la mano e ricollocare il suo partito nel solco del Ppe. Non è ancora troppo tardi per un gesto realistico e risolutivo.

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