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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2012 alle ore 12:33.

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Nella foto Angelino Alfano, Fabrizio Cicchitto e Guido Crosetto del Pdl in Aula alla Camera (Ansa)Nella foto Angelino Alfano, Fabrizio Cicchitto e Guido Crosetto del Pdl in Aula alla Camera (Ansa)

Approdato in Parlamento, il decreto sulle "liste pulite" deve ora fare i conti con l'ostruzionismo del Pdl, che considera troppo strette le maglie dell'incandidabilità stabilite dal governo in base alla delega contenuta nella legge anticorruzione. Il tempo stringe, perché per essere operativo fin dalle prossime, e ormai imminenti, elezioni (regionali e politiche) il decreto andrebbe "perfezionato" entro gennaio. L'iter infatti prevede che le Camere abbiano 60 giorni di tempo per esprimere un parere, obbligatorio ma non vincolante per il governo che poi dovrà approvare definitivamente il decreto legislativo, mandarlo alla firma del Capo dello Stato e pubblicarlo in Gazzetta ufficiale.

Ora, se Camera e Senato decideranno di prendersi tutti i 60 giorni previsti dalla delega per il parere, le nuove norme sull'incandidabilità non potranno applicarsi alle elezioni di febbraio per il Lazio, ed eventualmente neanche per le politiche, la Lombardia e il Molise, sempre che queste ultime non vengano fissate a marzo (in tal caso ci sarebbero i tempi tecnici). Se invece licenzieranno il parere rapidamente (per esempio dimezzando i tempi), si può arrivare puntuali all'appuntamento con il voto.

Vanno fatte, però, due osservazioni. La prima: la delega precisa che se le Camere non riescono a formulare il parere entro 60 giorni, il governo procede ugualmente. Dunque, se in altri casi il Parlamento ha spesso chiesto (e ottenuto) una proroga, stavolta non sarà possibile, per cui al massimo a metà febbraio le regole sull'incandidabilità saranno operative e chi fosse entrato in lista nonostante una condanna definitiva a più di due anni rischierebbe la decadenza successivamente. Idem per chi, imputato e già condannato in primo e secondo grado, fosse raggiunto da una condanna definitiva di lì a poco.

Seconda osservazione: i tempi di approvazione del decreto possono essere più brevi se le Camere daranno il parere «in fretta», come vogliono Pd, Fli e la gran parte dei partiti per «non far perdere alla politica l'occasione di mandare un segnale di moralità». Ma c'è un "ma": se il Pdl è sostanzialmente minoranza, c'è da chiedersi perché le altre forze politiche, invece di puntare solo alla «fretta» blindando il testo così com'è, non propongano anche di «migliorarlo», suggerendo al governo regole più stringenti sulla «decadenza» dal mandato parlamentare di chi si sia candidato (e sia stato eletto) pur essendo indagato, imputato, condannato in primo e secondo grado, e poi sia stato definitivamente condannato.

Non va dimenticato, infatti, che su questo punto il governo ha già subìto il diktat del Pdl (così si dice) che ha preteso di lasciare le Camere assolutamente libere di valutare la decadenza o meno, nonostante la successiva condanna definitiva (anche a una pena interdittiva). Il testo originario dei ministri proponenti (Patroni Griffi, Severino, Cancellieri) cercava invece di ridurre i margini di discrezionalità delle Camere, che per esperienza non hanno mai portato a una delibera di decadenza di parlamentari condannati definitivamente, nonostante l'interdizione dai pubblici uffici. Così com'è uscito da palazzo Chigi, quindi, il provvedimento non dà garanzie di avere un Parlamento davvero "pulito", salvo che non siano i partiti a evitare fin dall'inizio candidature "macchiate" da vicende giudiziarie in corso.

La «fretta» rivendicata da quasi tutti i partiti (sicuramente la maggioranza rispetto al Pdl) sarebbe quindi più credibile se fosse accompagnata anche dalla proposta di introdurre nel decreto dei paletti alle valutazioni della Camera sulla decadenza del parlamentare condannato definitivamente durante la legislatura, pur nel rispetto dell'articolo 66 della Costituzione. Poi sarà il governo ad assumersi la responsabilità di raccogliere o meno il suggerimento. Ma rinunciare in partenza in nome della «fretta», limitandosi solo a criticare la «fiacchezza» delle nuove norme, farebbe di questo provvedimento l'ennesima operazione di propaganda della politica e non il segno di una svolta concreta.

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