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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2013 alle ore 07:30.

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La lettura dei primi programmi elettorali e l'ascolto di interviste ai leader di partiti non favorisce per ora la comprensione del loro disegno sui nessi tra Italia ed Europa. Quasi tutti esprimono un forte e condivisibile europeismo, quasi tutti si impegnano per un esito federale della unificazione europea, tutti affermano che il rigore di bilancio non basta e che bisogna rilanciare la crescita e l'occupazione. Ma di concreto c'è ben poco o nulla. Eppure la Ue ha approvato dei progetti per l'economia reale ovvero per l'industria, le infrastrutture, l'ambiente, l'energia e la ricerca molto importanti anche per l'Italia così come lo è il bilancio comunitario 2014-2020, specie la sua ripartizione settoriale che può avvantaggiare o meno singoli Paesi.

Molti dicono che i programmi elettorali devono lanciare solo messaggi "forti e chiari" che a noi pare siano per ora solo "forti e confusi". Non volendo contribuire alla confusione poniamo due quesiti alle forze politiche con riferimento a temi di economia reale sui quali ci siamo spesso intrattenuti nella convinzione che da qui passa un contributo durevole alla soluzione dalla crisi europea (e italiana). Andrebbe davvero ritrovata la spinta, richiamata ieri da Giorgio Squinzi su queste colonne, della ricostruzione post-bellica dove le infrastrutture e l'industria hanno determinato il vero decollo italiano. Ne abbiamo bisogno anche adesso perché la disoccupazione italiana a novembre 2012 ha superato l'11% (con l'aumento di 1,8 punti percentuali in un anno) mentre quella giovanile (15-24 anni) ha superato il 37% con un aumento di quasi 5 punti percentuali. Da questa base poniamo due quesiti ai partiti relativamente alle infrastrutture e ai finanziamenti europei.

Per quanto riguarda le infrastrutture è noto che gli investimenti nelle stesse hanno effetti moltiplicativi diretti e forti, durante le fasi di realizzazione, sia sull'occupazione che su tutta l'economia reale. Poi, ad opere concluse, ci sono effetti di efficienza sul sistema economico con riduzione di costi di trasporto (purché non si tratti di opere come il Ponte di Messina!). Secondo alcune stime, se l'Italia aumentasse annualmente gli investimenti in infrastrutture fino a portare il rapporto tra gli stessi e il Pil alla media europea (passando dal 2,1% al 2,5% circa) si avrebbe a regime un aumento del Pil stesso superiore al 10%. Naturalmente questi investimenti dovrebbero rispettare standard europei per i tempi e i costi di realizzazione, dove l'Italia ha ancora troppe carenze.

Purtroppo il rigore fiscale è stato forte con gli investimenti in opere pubbliche che dal 2000 al 2011 sono calati mentre la spesa corrente ha continuato a crescere. La dinamica è stata molto marcata tra il 2009 e oggi in quanto tutta la spesa pubblica in conto capitale delle amministrazioni pubbliche è calata quasi del 30% mentre quella corrente è cresciuta di quasi il 2 per cento.

La prima domanda che poniamo ai partiti è: ritenete possibile (e come) una ristrutturazione delle spese delle Amministrazioni pubbliche che nel 2011 sono andate per il 94% alle spese correnti nel cui ambito i consumi collettivi finali (retribuzioni e acquisti di beni e servizi) sono stati il 40,6% mentre alle spese in conto capitale (investimenti e trasferimenti) è andato solo il 6%? In altri termini: chi ipotizza un'imposta patrimoniale per ridurre il debito, vuole liberare risorse per gli investimenti in infrastrutture, per la ricerca scientifica e tecnologica, per dare occupazioni produttive ai giovani o pensa di continuare con la spesa corrente?

Per quanto riguarda i finanziamenti europei è fresca la notizia che la Banca europea per gli investimenti (Bei) ha aumentato il capitale di 10 miliardi di euro anche con un contributo italiano di 1,6 miliardi. Con questo aumento la Bei ritiene di poter incrementare il finanziamento a progetti di investimenti economicamente sostenibili in tutti i Paesi della Ue per 60 miliardi su tre anni. I prestiti andranno a quattro settori prioritari: innovazione e formazione, Pmi, energie pulite, infrastrutture moderne. Non sono cifre enormi rispetto alle ipotesi di investimenti nelle infrastrutture europee (Trans-European Networks e Connecting Europe Facility) che prefigurano fabbisogni finanziari di 1,5-2mila miliardi entro il 2020. Né lo sono rispetto alla risorse del quadro finanziario pluriennale 2014-2020 in discussione, che vorrebbe disporre di 1000 miliardi circa (nel cui ambito ci sono anche gli investimenti per la ricerca e innovazione di Horizon 2020). L'Italia potrebbe inserirsi con forza in questi finanziamenti europei sia rilanciando un progetto analogo a "Industria 2015" varato nel 2006 dal governo Prodi, con un apporto significativo del ministro Bersani, sia affidando una delega forte per le infrastrutture alla Cassa depositi e prestiti recentemente potenziata dal ministro Tremonti e ben gestita da Bassanini e Gorno Tempini.

La seconda domanda che poniamo ai partiti è: ritenete possibile aumentare e finalizzare meglio la quota di nostra fruizione dei fondi comunitari in considerazione del fatto che nel 2011 l'Italia ha dato un contributo netto (ovvero fondi erogati meno fondi ricevuti) di quasi 6 miliardi che sul nostro Pil sono lo 0,38% contro quote minori di altri due contributori netti e cioè la Germania con uno 0,34% e la Francia con lo 0,31%? In altri termini, come pensate di combinare l'europeismo del rigore fiscale con quello della crescita reale che comporta un pieno e efficiente utilizzo dei fondi europei?

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