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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2013 alle ore 07:12.

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Con questo articolo Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell'Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell'Università Cattolica, inizia la sua collaborazione con il Sole 24 Ore.
Lo spettro di una crisi analoga a quella del '29 non è certo svanito. Ma forse si è fatto meno incombente: perlomeno a giudicare dai timidi segnali di incoraggiamento che si possono cogliere in questo inizio di 2013 nel ridondante boato di cattive notizie che ogni giorno sembra apprestarsi a travolgerci.

Prima è arrivata quella della ripresa del settore immobiliare d'oltreoceano; poi sono stati diffusi i dati sulla crescita della domanda interna cinese di beni di consumo (trainata da auto ed elettrodomestici); infine stiamo assistendo a una tendenza generalizzata alla riduzione degli spread dei titoli pubblici europei. Segnali, appunto, che lasciano intravedere non certo "la luce in fondo al tunnel", ma la possibilità che il tunnel finisca e che si torni a vedere il sole.
Si tratta di segnali importanti, perché provengono dagli ambiti più "critici" per ognuna delle tre maggiori aree economiche del pianeta. Impossibile dimenticare che proprio dalla bolla immobiliare, che attraverso i mutui spazzatura avrebbe portato al crollo della Lehman Brothers, è partita la spaventosa crisi in cui ancora ci troviamo. Sull'altra sponda del Pacifico, proprio i dubbi sulla capacità di riconvertire un'economia eccessivamente export led in una maggiormente centrata sulla crescita del mercato interno erano quelli che più pesavano sulle prospettive di crescita della Cina. E sulla contraddizione tra moneta unica ed economie non abbastanza regolate in maniera omogenea avevano puntato gli scommettitori avversi al futuro dell'euro, facendo levitare uno spread peraltro generato in gran parte dai comportamenti delle singole classi politiche nazionali.

Segnali importanti, quindi, che possono essere interpretati sistemicamente.
Segnali che ci dicono che il potenziale per la ripresa esiste, ma che proprio alla politica toccherà la responsabilità cruciale di non mortificarli e anzi di trasformare i segnali in tendenze. Perché dalla Cina agli Stati Uniti all'Europa emerge un'indicazione chiara: quella del legame tra virtù politica e virtù economica e, per converso, tra bad economy e bad politics. È stata la capacità di fermarsi a un passo dal baratro, di evitare il fiscal cliff, ritrovata in extremis da Congresso e presidente a impedire che la timida ripresa (a cui una diversa autorità di natura essenzialmente politica come la Fed aveva dato un decisivo contributo) non venisse messa in rotta.
Già a inizio febbraio, tuttavia, altre analoghe scadenze attendono al varco democratici e repubblicani, che dovranno ritrovare un accordo necessariamente bipartisan se vorranno consolidare l'inversione del ciclo economico.

È vero che la "voglia di benessere" della nuova gigantesca classe media cinese ricorda per certi aspetti quella dell'Italia degli inizi del boom. La protesta di massa contro la censura che nei giorni scorsi ha attraversato le piazze reali e virtuali del gigante asiatico evidenzia la differenza cruciale tra gli anni '50 dell'Italia e gli anni '10 della Cina: un Paese - l'Italia - che sperimentava con coraggio, pur tra mille contraddizioni, la via della democrazia di massa e del consumo di massa, la cui leadership sceglieva consapevolmente la strada dell'allargamento della base sociale della politica e del mercato come la sola via percorribile per uno sviluppo socioeconomico duraturo; l'altro - la Cina - che ancora esita sulla via della riforma politica e che si illude di riuscire a impedire che lo sviluppo impetuoso dell'economia di consumo e il conseguente pluralismo sociale che già si è generato possa non travolgere, prima o poi, il monopolio del potere del partito unico.
E l'Europa? Per quanto lo spread dell'eurozona si sia raffreddato, anche qui grazie soprattutto alle decisioni politiche del governatore Draghi e alla sua azione di supplenza istituzionale, se i nodi politici presenti nella costruzione europea non verranno sciolti, gli attacchi speculativi sull'euro non potranno che riprendere.

Troppe volte, in questi anni, è stata presentata una lettura semplicistica dei legami pur evidenti tra fattori economici e fattori politici di questa crisi, in cui l'alleggerimento del "peso della politica" avrebbe rappresentato la strada maestra per consentire nuovamente all'economia di ripartire.
È giunto il momento di riconsiderare simili visioni. E di rammentare a chi aspira governare che il compito di una leadership politica sta nel garantire consenso e legittimità all'azione economica e, allo stesso tempo, inclusione e rispetto per le aspettative dei cittadini. Perché è proprio in tempi di crisi che occorre tornare a pretendere che la politica dia il suo contributo "aggiungendo qualcosa" e non solo limitandosi a smettere di "sottrarre risorse" all'economia e alla società.

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