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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2013 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 18 gennaio 2013 alle ore 08:20.

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È tutt'altro che una marcia trionfale quella che si prospetta per l'Armée francese in Mali, che già mercoledì sarebbe stata coinvolta in scontri di terra coi ribelli. Per il momento, l'unico esito certo della nuova spedizione militare africana d'Oltralpe è consistito in due tragici spin-off: il sequestro e l'uccisione di un numero imprecisato di lavoratori occidentali in un impianto estrattivo in Algeria e l'uccisione di un agente francese (da lungo tempo nelle mani dei suoi rapitori) in Somalia.

Il rischio che l'incisione del bubbone qaedista in Mali provochi il contagio dell'infezione in vaste parti dell'Umma islamica è senz'altro ben presente alle autorità francesi e a quelle di tutte le altre nazioni che hanno accettato di contribuire a sostenerne lo sforzo: dagli Stati Uniti alla Nigeria, dalla Danimarca all'Italia, dalla Gran Bretagna alla Germania. D'altronde, sono molti e circostanziati gli indizi che fanno ritenere che una parte cospicua della panoplia a disposizione dei ribelli maliani provenga dal saccheggio degli arsenali del colonnello Gheddafi: ancora una volta uno spin-off negativo dell'ultima campagna militare volta alla messa in sicurezza dell'estero vicino europeo. Ed è proprio guardando agli esiti della guerra di Libia - l'ultima "vittoria" conseguita dalle armi occidentali - che ne esce rafforzata la sensazione che l'uso della forza militare, la guerra per chiamare le cose col loro nome, riesca sempre meno a conseguire l'obiettivo politico per cui viene decisa.

Il paradosso è che l'ultima guerra che ha centrato il suo obiettivo è stata quella mai davvero combattuta: la Guerra Fredda. Quella sì "vinta" senza ombra di dubbio nei confronti dell'avversario sovietico, nonostante le tante sconfitte subite dall'Occidente nei teatri periferici (dall'Indocina all'Africa australe) dove essa alimentava o patrocinava dispute locali. Dopo di allora, con l'eccezione di campagne all'obiettivo limitato (la liberazione del Kuwait nel 1990-91) o a costo di un insieme di pesanti compromessi e prolungate occupazioni (come nei Balcani) le cose sono andate storte: basti pensare alla situazione attuale di Iraq e Afghanistan. Un secondo paradosso è che più diventavamo consapevoli della insufficiente efficacia dello strumento militare e più ci abbiamo fatto ricorso: in parte perché le circostanze lo consentivano in virtù della nostra straordinaria superiorità logistica e tecnologica; in parte perché non sapevamo che altro fare in assenza di un'altrettanto rampante superiorità politica.

Si potrebbe persino avanzare l'ipotesi che proprio l'erosione della supremazia politica occidentale sul sistema internazionale ci abbia invogliato a spingere il confronto sul campo dove continuiamo a possedere una (illusoriamente) confortante supremazia: quello militare appunto. Di fronte alle difficoltà incontrate sul terreno, e alla debolezza o alla concreta irrealizzabilità delle dottrine strategiche elaborate (la guerra preventiva), abbiamo cercato persino di convincerci che concezioni tattiche come quella della "guerra contro-insurrezionale" elaborata dal generale Petraeus potessero rappresentare la pietra filosofale in grado di riconnettere guerra e politica, ignorando peraltro l'eterna lezione di Clausewitz sul rapporto strumentale della prima rispetto alla seconda.

Sarebbe rassicurante poter rinchiudere nel recinto del dibattito accademico considerazioni di questo tipo, se non fosse che il legame tra superiorità militare, supremazia politica e centralità economica è stato tanto evidentemente cruciale nel determinare la posizione occidentale nel mondo e nel presidiarla. C'è infine un terzo paradosso in tutta questa storia, infatti, è che sull'asset militare, per quanto poco risolutivo si stia dimostrando, l'Occidente non ha sostanzialmente rivali, mentre su quelli politici ed economici le cose sono ben diverse. C'è poco da stare allegri, dunque, nel constatare che la guerra sta perdendo efficacia nel tutelare o imporre l'ordine, perché invece essa mantiene tutta la sua capacità dis-ordinante. Quello che rende infatti così difficile sconfiggere il jihadismo o di prevalere nelle diverse, ricorrenti forme di guerra asimmetrica sta molto di più nel tipo di legame tra risorse politiche, economiche e militari a disposizione dei nostri nemici che non nelle dottrine tattiche con cui essi combattono.

Piuttosto che inseguire allora l'elaborazione della tattica o della strategia perfetta - compito peraltro al quale i militari si applicano con maggiore creatività e minor conservatorismo di quanto dimostrino tanti intellettuali nel proprio ambito di ricerca - sarebbe opportuno provare a lavorare sugli asset politici ed economici a nostra disposizione. Prima di ritrovarsi impegnati in un'ennesima "guerra contro il terrorismo", dalla quale chiederemmo poi ai militari di cavarci d'impiccio, a causa dell'incapacità della politica di indicare obiettivi perseguibili, strumenti adeguati e risorse sufficienti.

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