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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2013 alle ore 12:06.

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Amine Lhamar, algerino, è stata la prima vittima dei terroristi a In Amenas. Ha cercato di impedire che entrassero nel compund e lo hanno fatto fuori con una raffica alla testa: prima di cadere, racconta il giornale El Watan, era riuscito a dare l'allarme. Nessuno si ricorderà di lui, come di gran parte delle 200mila vittime del terrorismo in Algeria dal '92 a oggi. Non tutti uccisi dagli islamisti, una buona parte fatti fuori in una guerra sporca dove le forze di sicurezza punivano la popolazione che aveva votato e sostenuto l'ascesa del Fronte islamico di salvezza, vincitore del primo turno delle elezioni nel dicembre del '91, poco prima del colpo di stato dei generali che diede il via alla mattanza.
A Blida intervistai un poveruomo invalido, vedovo, con quattro figli piccoli: due giorni prima la più grande, 15 anni, era stata sgozzata nel corridoio del liceo da due coetanei. La sua colpa era quella di non portare il velo. Nelle morgue di Algeri e della provincia si fotografavano cadaveri decapitati, sezionati dalle lame islamiche, con gli arti ricuciti dal filo di ferro per poterli ricomporre in una bara e celebrare i funerali.

L'Algeria degli anni di piombo era questa. Alle cinque del pomeriggio, in ogni stagione, anche d'estate, la capitale si svuotava. Persino Baghdad, anni dopo, sarebbe apparsa, pur nella sua tragedia, meno oppressiva e agghiacciante.
Regnava il terrore. Ogni posto di blocco era un'insidia. Potevano esserci i "ninja" delle forze di sicurezza ma anche gli islamisti con il passamontagna e le divise della polizia che montavano i "faux barrage", i falsi ceck point. Le forze speciali, a loro volta, usavano abiti islamici come jallabah e turbante, per penetrare indisturbati nei quartieri di Algeri e nei villaggi della Mitidja alla ricerca dei terroristi: se non li trovavano sfoderavano pistole e coltelli e punivano la popolazione, lasciando sul terreno le teste decapitate.
"Chi uccide chi?": era questa la domanda senza risposta della "guerre sale", la guerra sporca di cui ben poco sappiamo ancora oggi.

A Algeri, di notte, il silenzio saliva e scendeva come il grafico di elettrocardiogramma, l'orecchio teso a percepire ogni rumore innaturale dal corridoio o dalla strada, dove se nel deserto sfrecciava un'auto portava quasi di sicuro un carico di morte. Poi raffiche ed espolsioni: chi stanno uccidendo questa volta? Di giorno, camminando sulla corniche del lungomare disegnato da Le Corbusier vestito da algerino comune, con un giubbetto nero e una baguette di traverso nel tascapane, il simbolo ineludibile della battaglia per la vita quotidiana, tenevo lo sguardo fisso davanti per non incrociare quello altrui ma ogni volto era sospetto perché la morte era pronta a sfiorati: un islamico che ti aveva pedinato da giorni o anche un agente dei servizi al quale non era piaciuto il tuo lavoro o si era irritato perchè avevi eluso in controlli. Gli agenti della Sureté potevano proteggerti e allo stesso tempo condannarti: agli angeli custodi bastava un cenno o semplicemte che lasciassero fare agli uomini con la jallabah.

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