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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2013 alle ore 12:06.

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Con Chawki Senussi, giornalista algerino di Radio Popolare di Milano, andammo a Orano, la città della "Peste" di Camus. Il romanzo era diventato realtà 50 anni dopo. La città di Cheb Khaled, dove avevano inventato il "Rai", la musica ritmata sorta dall'incontro tra la tradizione araba e quella andalusa rivista in chiave contemporanea, era piombata in un'atmosfera tombale. Quasi tutti i cantanti erano fuggiti in Francia; Cheb Hasni, celebre muscista e producer, era stato assassinato a 26 anni da una mano ancora ignota.
Lo zio di Chawki, un magistrato, era diventato sindaco di Orano: viveva assediato da capillari misure di sicurezza anti-terrorismo alle quali avevano contribuito pure esperti italiani. Le auto blindate prodotte dalle aziende nostrane erano ricercatissime da quando il generale Khaled Nezzar era sopravvissuto a un attentato protetto da una Lancia Thema corazzata.

L'Algeria della lotta anti-coloniale descritta da Gillo Pontecorvo in un fim cult dell'adolescenza non esisteva più, se non nelle alte sfere del potere, militari e servizi segreti. Ben Bella viveva in esilio e quando tornò da Ginevra ad Algeri eravamo in pochi ad accoglierlo.
Sul fondale realistico della "Battaglia d'Algeri", nei vicoli stretti della Casbah e di Bab el Oued, erano confluiti i massacri del passato anti-coloniale: i regolamenti di conti tra le fazioni dell'Fln, il Fronte di liberazione nazionale, la caccia spietata ai collaborazionisti dei francesi, gli "Harkis". In tutto un milione di morti che sembravano risorgere dai cimiteri e dalle fosse comuni per aggirarsi come zombie insieme ai nuovi fantasmi dell'orrore. Il passato che non passa: anche Hollande e Bouteflika, il presidente francese e quello algerino, ne hanno di nuovo parlato, insieme ai discorsi d'affari, nel loro incontro poco prima dell'operazione militare in Mali.

Venivano uccisi giornalisti, intellettuali, scrittori, artisti, ingegneri, tecnici, operai, impiegati pubblici e chiunque potesse rappresentare un bersaglio. Furono massacrati anche degli italiani: sgozzati sette marinai a Jijel, freddato un giovane e bravo ingegnere a Biskra. Si invocava "Visà, Visà", il visto, il visto, come il titolo di una celebre canzone del rai, per fuggire dall'incubo. Il silenzio, dentro e fuori, era infinito, la paura divorava l'Algeria, a porte chiuse, senza testimoni, sulla sponda sud del Mediterraneo.
Ma gli algerini, di qualunque idea fossero, non cedevano mai sulla propria dignità, che appariva esattamente come loro: fatta di un'essenza concreta, quasi materiale, rude, legnosa, scontrosa, orgogliosa dell'indipendenza conquistata nel ‘62 col sangue senza l'aiuto di nessuno. Questo è un popolo che è rimasto sempre in piedi di fronte alla grande storia del ‘900 come alle difficoltà della vita quotidiana.
Il povero ed eroico Amine Lhamar, guardiano di In Amenas, solo davanti alla canna spianata di un mitra, è un volto sconosciuto ma che possiamo incontrare ovunque in questa Algeria così violenta ma autentica, commovente e ignorata. Proviamo a rispondere a una domanda prima di farne altre: conosciamo davvero l'Algeria?

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