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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2013 alle ore 12:06.

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Il giornalista straniero, a parte gli amici algerini, incontrati con mille precauzioni, trascorreva intere settimane in solitudine, una sensazione che non mi ha più abbandonato dopo anni.

L'Algeria era una tragedia a porte chiuse, pochi coloro che hanno potuto seguirla da dentro: i visti venivano concessi con il contagocce, dopo mesi di attesa, lavorare era quasi impossibile, seguiti passo passo e spiati dai servizi.
I colleghi algerini erano diventati i nostri eroi: Omar Belhoucet, direttore del "Watan", provarono senza successo a ucciderlo un paio di volte, altri furono meno fortunati. Il direttore del "Matin", il giorno prima di essere crivellato di colpi, scrisse il suo ultimo editoriale nel quale annunciava di sentire la morte avvicinarsi.
Le redazioni dei giornali, quasi tutte riunite nel quartiere di Belcourt dove era vissuto con la dolcissima mamma analfabeta il premio Nobel Albert Camus, erano fortini assediati. Piene di fumo, con volti febbrili: un mondo in bianco e nero come in un film degli anni '50, e senza Internet. Bernardo Valli che conosceva quell'universo algerino prima da legionario e poi da giornalista lo descrisse in articoli così incisivi che questo sembra un pallido avatar. Vicino alla scrivania di ogni giornalista c'era la branda per dormire: quasi nessuno tornava a casa per evitare che moglie e figli diventassero un bersaglio.

Dall'altra parte, tra gli islamici, non si viveva meglio. Dopo un'intervista con un portavoce del Fronte islamico, tornai nella stanza del Saint George e non trovai più il telefono: allora non c'erano cellulari o altro. Era un invito esplicito a togliersi dai piedi perché l'uomo dell'intervista venne arrestato due ore dopo la mia visita. Per farmi restituire l'apparecchio di bachelite nera dovetti scomodare Lakdhar Brahimi, il ministro degli Esteri, che conoscevo da alcuni anni: oggi è l'inviato speciale dell'Onu per la Siria. Un compagno di strada dei generali sradicatori degli islamici che con il tempo è diventato un felpato mediatore internazionale.
Qualunque mossa imprudente poteva costare la vita a un'altra persona e chi accettava di vederti poteva passare guai fatali. A metà anni '90 andai a casa di Guemmazi, uno dei 12 fondatori del Fronte islamico di salvezza (Fis). Stava sotto lo sperone di roccia di Bab el Oued, roccaforte integralista, vicino al cinema Atlas: qui il giorno prima avevano trovato una testa mozzata nella spazzatura. Guemmazi mi ricevette nella penombra, con le persiane chiuse, mentre intorno galleggiavano le sagome nere avvolte dal velo delle donne di famiglia.

Finita l'intervista uscii sotto i portici per afferrare un taxi, avevo il cuore in gola e immagino lui ben più di me. Con un paio d'ore di volo, se non mi intercettavano prima, sarei stato al sicuro in Italia.

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