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Questo articolo è stato pubblicato il 24 gennaio 2013 alle ore 06:55.

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La si può buttare in gazzarra altisonante, buona per la campagna elettorale e rispettosa, in fondo, del gattopardesco "cambiare tutto perché nulla cambi". Oppure, usando il bisturi e non le armi fumogene, si può provare un'operazione a bilancio, conti e fatti aperti. Che per una banca, e tanto più per una banca che ha in pancia 3,9 miliardi pubblici di Monti-bond, sono il cuore del problema.

Il caso del Monte dei Paschi di Siena necessita, subito, di un'operazione-trasparenza nell'interesse pubblico generale oltre che in quello dei suoi correntisti e dei suoi lavoratori. Dopo le dimissioni di Giuseppe Mussari da presidente dell'Abi (ex presidente della Fondazione e poi presidente della banca senese, undici anni di leadership) e l'emersione di operazioni di finanza derivata alcune delle quali sarebbero rimaste nella nebbia più fitta, se non nella penna di chi le ha volute, per il Monte dei miracoli e dei segreti potrebbe profilarsi un commissariamento e, forse, una nazionalizzazione. Che «non è in agenda in questo momento», ha voluto dire ieri l'ad Fabrizio Viola.

Ma già questa sola eventualità, e il fatto che le perdite di Siena sui derivati impatterebbero sul bilancio 2012 per oltre 2 miliardi, spiegano l'esigenza di far luce piena sulla gravissima vicenda. Inoltre, mentre è in corso la visita degli ispettori del Fondo monetario, non possiamo permetterci né concessioni alla retorica ideologica anti-capitalista (la finanza è tutta marcia), né generalizzazioni sugli strumenti (c'è derivato e derivato, quelli "semplici" per coprirsi dai rischi sono ordinaria amministrazione) né, soprattutto, minare alla radice la credibilità dell'intero sistema bancario italiano. Lasciando che s'insinui il velenoso e destabilizzante sospetto che tutti i bilanci non sono veritieri. Cioè falsi, quasi fossimo al cospetto di una colossale Parmalat creditizia, di cui il Monte dei Paschi non sarebbe che il battistrada.

Ecco perché il caso della banca senese che ha sempre camminato a braccetto della politica, in particolare di sinistra ma non solo, ed il cui ambizioso progetto di grandeur globale dopo secoli di redditizio incedere locale è precipitato al livello che abbiamo sotto gli occhi, necessita del bisturi e della massima trasparenza possibile. Occorre sapere come è maturata ed è stata discussa la scelta-madre (l'operazione di acquisto della Banca Antonveneta, rilevata dallo spagnolo Banco Santander di Emilio Botin che solo pochi mesi prima l'aveva acquistata da Abn Amro per 6,6 miliardi) annunciata a fine 2007 e costata oltre 9 miliardi di euro cash. Occorre capire cosa è accaduto in seguito a quella scelta, come hanno funzionato o non funzionato le procedure interne di governance della banca, quali operazioni hanno determinato perdite per l'istituto e perché alcune di queste non sono state fatte emergere dai bilanci. Occorre sapere fino a che punto il Monte si è spinto sulla strada della finanza derivata più complessa, quella che incarta tra le sue pieghe più lontane e inaccessibili un'intricata giungla di ricche commissioni. Occorre, infine, chiarire fino in fondo che cosa hanno saputo - o meglio non saputo, come spiegato da Viola e confermato da Bankitalia - le authority competenti (come la Banca d'Italia e la Consob), la Fondazione Montepaschi (l'azionista politico), il consiglio di amministrazione, il collegio dei sindaci, i revisori dei bilanci.

Tutto questo deve uscire dal teatro delle ombre e dei sospetti. Le risposte - a partire da quelle che hanno cominciato a dare il nuovo management, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola - non possono che essere nel merito, fattuali. Lo stesso ex presidente Mussari è indagato dalla magistratura senese che deve valutare se è colpevole di ostacolo alla vigilanza e manipolazione del mercato, sempre con riferimento all'Antonveneta.
C'è bisogno, nel caso del Monte dei Paschi, di risposte precise e trasparenti assunzioni di responsabilità da parte di tutti coloro che sono competenti a farlo. Sotto il tappeto del sistema bancario, per parafrasare una formula di successo coniata da Pierluigi Bersani, non può esserci un solo milligrammo di polvere. In modo da evitare, in piena campagna elettorale, il solito polverone.

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