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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2013 alle ore 07:30.

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Il ruolo istituzionale, e la presenza di inchieste in corso, impone ai vertici della vigilanza il massimo riserbo: se chiamati, è in Parlamento che riferiranno del proprio operato nel caso-Mps.

Chi è bene informato, tuttavia, riferisce che lungi dall'essere rimasta passiva, la Banca d'Italia non solo aveva rilevato per prima già dalle ispezioni del 2011 che alcuni conti non tornavano nel bilancio della banca senese, ma anche che era stata la stessa Via Nazionale ad accorgersi anche prima della magistratura di alcuni aspetti poco chiari sulla condotta del management dopo l'acquisizione dell'AntonVeneta.
Non solo. Dietro le dimissioni del direttore generale Antonio Vigni nel gennaio del 2012, e poi pochi mesi dopo del presidente Giuseppe Mussari, ci fu proprio la «moral suasion» di Via Nazionale, che chiese esplicitamente alla Fondazione senese, azionista di maggioranza della banca, di operare una «discontinuità immediata del management»: in pratica, di costringere alle dimissioni i due dirigenti che avevano pensato, condotto ed effettuato sia l'acquisizione di AntonVeneta sia l'acquisto di pericolosi derivati strutturati che avrebbero potuto mettere a rischio la stabilità dell'istituto senese. Una procedura, questa, che poco tempo prima era già stata adottata da Bankitalia nei confronti del top management della Banca Popolare di Milano, che a giudizio dell'authority non aveva operato secondo il principio della sana e prudente gestione del credito.

Questa, in estrema sintesi, la ricostruzione dei fatti che hanno preceduto sia le dimissioni di Vigni e Mussari, sia le inchieste della magistratura senese e di Milano sul comportamento della banca dopo l'acquisto di AntonVeneta. Banca d'Italia, insomma, non solo non è rimasta affatto passiva davanti alle ombre che circondavano l'operato dei manager di Siena, ma ha usato tutti i poteri a propria disposizione per fare chiarezza sui sospetti e sui bilanci. Sospetti che, tra l'altro, erano già emersi all'inizio del 2011 quando gli ispettori dell'Eba (l'autorità bancaria europea) si recarono in Italia per effettuare gli stress test sulla solidità delle banche. Dalle ispezioni a Siena, infatti, gli uomini dell'Eba non uscirono affatto convinti sulla capacità della banca di stare sul mercato: l'authority europea rilevò in particolare una pericolosa mancanza di liquidità e una palese debolezza patrimoniale, investendo del caso la Banca d'Italia. A Siena fu ordinato subito di rafforzare il capitale e soprattutto di chiedere all'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti un finanziamento di due miliardi di euro attraverso i Tremonti-Bond. Ed è proprio a questo punto che scatta la nuova ispezione di Bankitalia a Siena.

Gli uomini di Visco vanno a Rocca Salimbeni, aprono cassetti e computer, esaminano file e documenti, interrogano dirigenti e funzionari e arrivano a una clamorosa conclusione: i problemi vanno ben oltre l'erosione di liquidità. In particolare, Banca d'Italia rileva non solo che i due miliardi in Tremonti bond non bastano, ma anche che la banca si trovava in una posizione critica quanto a sostenibilità patrimoniale, e che alcune operazioni erano state effettuate dal management in modo poco chiaro anche sotto il profilo penale. Di qui la decisione, nella seconda metà del 2011, di chiedere alla Fondazione Mps la «discontinuità del management». È bene precisare anche un'altra cosa: né dalle ispezioni dell'Eba né da quelle della Banca d'Italia erano emerse le pericolose posizioni in titoli derivati strutturati prese da Mussari e Vigni. La banca, insomma, si sarebbe guardate bene dal comunicarle agli ispettori. Ma pur non sapendo dei derivati, a cominciare da quelli di Nomura, Visco ha ritenuto di avere abbastanza elementi per muovere l'attacco ai vertici di Mps: a fine anno viene chiesta la rimozione di Vigni, poi in aprile quella di Mussari.

Trascorrono pochi mesi e scatta il blitz dei magistrati: il 9 maggio (e poi nuovamente il 12 luglio del 2012), i pm di Siena mandano 150 finanzieri nella sede della banca e nelle abitazioni di Mussari e Vigni per acquisire documenti. Il caso-Montepaschi, da finanziario, diventa penale. Intanto, però, le ispezioni vanno avanti. E con queste, emerge la necessità di chiedere anche al Governo Monti un aiuto finanziario di 1,5 miliardi di euro. Davanti a questa situazione, anche a Siena sale la tensione. E grazie all'aiuto del nuovo management, formato da Fabrizio Viola e da Alessandro Profumo, si arriva a una nuova svolta: le carte segrete sui derivati di Nomura e altri strumenti finanziari emergono dalle casseforti, la situazione patrimoniale e di liquidità torna nuovamente a rischio e la banca, d'intesa con Via Nazionale, chiede di portare a 1,9 miliardi (400 in più della prima valutazione) il contributo pubblico nei cosiddetti Monti bond.

Come concludere? Che l'operazione AntonVeneta e i 9,5 miliardi di euro sborsati dal Monte sono alla radice della crisi della banca. Un'operazione, è bene ricordarlo, che per quanto onerosa non destava nel 2008 particolari problemi alla vigilanza: allora, il Monte era una delle banche meglio patrimonializzate d'Italia. I problemi, come abbiamo appreso ora, sono cominciati dopo.

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