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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2013 alle ore 15:20.
L'appuntamento era per stamattina alle 10, nel salone d'onore del Coni, al Foro Italico. In quattrocento, campioni e comprimari, hanno risposto all'appello della Fir, che, dopo lunghe ricerche, è riuscita a rintracciarli. Ex azzurri del rugby (o loro eredi), per cui è stata organizzata una cerimonia di consegna collettiva del "cap", cioè del berrettino che - nella tradizione anglosassone - simboleggia la presenza in Nazionale. Gli "aventi diritto" erano in tutto 627, e con il tempo le lacune di questa prima cerimonia verranno colmate. Così come la consegna del cap sarà estesa alle rappresentanti del rugby femminile: a proposito, ieri - a Rovato, in provincia di Brescia - la sifda in rosa con la Francia l'abbiamo vinta noi, 13-12 grazie a un calcio di Veronica Schiavon all'ultimo istante.
Ma intanto questo è stato un evento di emozioni forti. Con uomini di epoche diverse, dal decano novantenne Silvano Tartaglini a giovani tuttora in attività, come Matteo Pratichetti. Gente arrivata da tutte le parti d'Italia ma anche da oltreconfine: il record della distanza coperta per essere presente appartiene probabilmente a Mario Gerosa, azzurro degli anni 90, che proviene da Rosario, Argentina.
Toccante la cerimonia, soprattutto quando si è trattato di ricordare qualcuno che non c'era più. Per esempio Ivan Francescato, morto improvvisamente nel 1999 a 42 anni, oggi rappresentato da tre fratelli, a loro volta ex giocatori della Nazionale. Oppure Massimiliano Capuzzoni, scomparso a seguito di un incidente subacqueo nel 1995, lo stesso anno del suo esordio azzurro. Da sottolineare la presenza di Luciano "Cochi" Modonesi, che non solo ha vestito a sua volta la maglia dell'Italia ma è figlio di Uberto, il mediano di mischia della prima partita della Nazionale. Si giocò a Barcellona nel 1929, davanti - narra la cronaca, a volte presa per leggenda - a 100mila persone!
Anche il "prima" e il "dopo" la consegna - avvenuta per mano del presidente federale Alfredo Gavazzi, del suo predecessore Giancarlo Dondi e di Nino Saccà, vicepresidente vicario - sono stati ricchi di suggestione, grande allegria, voglia di ricordare, qualche spicciolo di malinconia.
Pacche sulle spalle così forti da evocare un impatto in mischia, scoppi di ilarità, nasi inconfondibili di giganti più o meno appesantiti (ma anche tanti fisici normali, stature medio-basse, a testimoniare che il rugby di un tempo, anche ai livelli di eccellenza, non era solo per supermen). Forte, com'è ovvio, il contingente veneto, con i rodigini che spiccavano con la cravatta del club rossoblù, orgoglio del Polesine. Ma è stato un romano, Maurizio Bocconcelli, ad avere l'idea migliore, presentandosi con la maglia numero 1, da pilone, che indossò 46 anni fa in una trasferta rumena (e pazienza se finì con un punteggio disastroso...).
Tutti e 400 scenderanno in campo per cantare l'inno di Mameli prima dell'incontro con la Francia, che inizierà alle 16. Nel frattempo il meeting continua. Con dialoghi straordinari. C'è chi si lamenta di qualche strascico alle articolazioni, emerso in anni non più verdi: "Il rugby non perdona", dice con un sorriso quasi affettuoso. "Eppure - si sente rispondere - in un certo senso è stata l'esperienza più importante della nostra vita". "Certo - è la sintesi - perché impari a metterti in gioco per davvero: sei in campo e non puoi fuggire".
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