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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2013 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 06 febbraio 2013 alle ore 08:27.

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Il fisco è diventato il tema della campagna elettorale. Ha preso il posto del lavoro che invece doveva essere – a detta di tutti i partiti in lizza – il vero argomento del confronto politico. Sulle tasse è facile promettere miracoli, sul lavoro no. Il bluff sarebbe subito percepibile nel Paese dove metà dei giovani meridionali è senza impiego, dove il tasso di disoccupazione è al 12%, dove la richiesta di cassa integrazione raddoppia proprio mentre mezzo milione di cassintegrati sta per perdere il sussidio e dove 500mila giovani contrattisti a termine sono a casa in attesa di revisione della legge Fornero.

È il lavoro il vero tema per una discussione seria sui programmi dei partiti, ma non si presta agli slogan o alle trovate da talk show. Dal 2007 a oggi l'occupazione ha perso 1,5 milioni di unità e la disoccupazione è raddoppiata. Chi può si fa migrante e cerca fortuna oltreconfine esportando ciò che ha di meglio, il proprio cervello, apprezzato fuori, sprecato in patria.

Il lavoro è un po' come la libertà: ne comprendi il valore – valore sociale, di cittadinaza oltre che meramente economico e di sopravvivenza materiale – soprattutto quando lo perdi. E il racconto dell'Italia d'inizio 2013 è quello di un Paese sferzato dai colpi (magari finali ma per questo più duri) della recessione. Il dramma sociale non è diventato ancora rivolta perchè funziona un sistema di ammortizzatori sociali prorogati in deroga (ma fino a quando?); perchè il sommerso fa affluire quella micro-liquidità e quel quasi-lavoro a un sistema prosciugato dal credit crunch e fuggito nell'economia informale e grigia; perchè le famiglie riescono ancora ad attutire i colpi della recessione sulle nuove generazioni, con i nonni a fare da "mecenati" ai nipoti e da "badanti economici" ai figli. Ma tutto ciò è solo un equilibrio instabile, un carpe diem fatto di una lunga sequenza di istanti precari senza sguardo lungo, senza prospettiva per i singoli e per il Paese. Lavoro significa modello di sviluppo: qual è la politica industriale dell'Italia? Quale la configurazione della logistica? Quale il posizionamento nelle infrastrutture a cominciare da quelle digitali? Qual è la politica per il rilancio dell'edilizia e della manutenzione delle città e del territorio? Quale la politica energetica?

Le risposte a queste domande disegnano l'idea-archetipo che una nazione ha del lavoro. Se l'Italia si guarda allo specchio scorge un Paese invecchiato in uno stereotipo astratto, figlio del giuridicismo anni 70 o, peggio, della mistica del conflitto sociale tra capitale e lavoro. La riforma Fornero – così come è uscita dal Parlamento dopo spinte e controspinte dei partiti della «strana» maggioranza del Governo Monti – non dispiega una sufficiente carica riformista e anzi accentua l'impatto negativo della recessione. Se la riforma pensioni è stato il sigillo del coraggio del Governo Monti, la riforma del lavoro resterà come eredità malata. L'occupazione non si fa per decreto, ma per decreto si può spaventare (e molto) chi deve fare le assunzioni. È ciò che è accaduto. Le correzioni in tema di flessibilità sono diventate distorsioni in un mercato già difficilissimo. Dai contratti a termine ai voucher per l'agricoltura, passando per la strage delle partive Iva (anche "buone") e delle collaborazioni il lavoro è sparito, congelato dal terrore di chi assume nel vedersi trasformato un accordo per un lavoro di poche ore in un contratto a vita. La riforma era stata pensata (anche nella sua potenziale emendabilità) per una situazione di normalità economica, facile alla sperimentazione. L'oggi invece non consente esperimenti, ma propone l'urgenza bruciante del salvare il salvabile. Forse è per questo che la campagna elettorale si tiene discosta da questa tragedia. Parlarne significa esplicitare, ad esempio, quante e quali risorse destinare a questo argomento o, meglio, significa scegliere cosa salvare e cosa no. Il Pdl propone la detrazione come credito d'imposta dei contributi dei primi 5 anni dei giovani neoassunti e la detassazione totale dei primi 4 anni per gli apprendisti.

Un'agenda per punti, senza crucci di copertura e di fattibilità. Il Pd vuole il lavoro al centro della legislatura e parla di «nuova natura del conflitto sociale» e propone di «alleggerire il peso fiscale su lavoro e impresa» aumentando il carico fiscale sulla rendita nonchè di spezzare la spirale perversa bassa produttività-bassi salari aumentando poi incentivi all'occupazione femminile. Un programma un po' generico dalla forte evocatività ideologica. La lista Monti fa sua la proposta Ichino che rivoluziona il corpus di norme del diritto del lavoro con un drastico taglio al numero di leggi e con un contratto unico a garanzie e tutele modulate sulla base dell'anzianità aziendale del lavoratore e con un "costo" per la licenziabilità crescente al crescere dell'anzianità lavorativa. Un "riformismo rottamatore" finora considerato socialmente insostenibile da imprese e sindacati.

Il nesso tra lavoro e fisco è evidente. Il fatto che la campagna elettorale abbia sovrapposto i temi ha finora evitato ai contendenti di dover dettagliare dove si trovino le risorse per le nuove idee e come debba essere modulato il carico delle tasse. La prima vera riforma sarà comprendere che il lavoro non è una gabbia di regole, ma il frutto di idee che diventano realizzazioni e creano ricchezza e occupazione. Quindi "istinti" e "incontri" da liberare da vincoli normativi e gravami fiscali. Meno Irapef e meno Irap, dunque. In un quadro di tenuta dei conti pubblici e di equità sociale. È difficile, ma è proprio per queste che serve la politica.

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