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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2013 alle ore 07:53.

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L'iniziativa del dipartimento di Giustizia americano di chiedere a Standard&Poor's 5 miliardi di danni è quasi un atto dovuto, dopo che varie inchieste ufficiali avevano messo in evidenza le responsabilità delle agenzie di rating nella grande bolla del credito che ha generato la crisi finanziaria.

Ma gran parte delle argomentazioni contenute nella denuncia fanno riferimento esplicito a problemi generali, come i conflitti di interessi, che sono sempre più gravi nelle banche di oggi. La commissione istituita dal governo (Financial crisis inquiry commission, Fcic) era stata molto severa: aveva affermato testualmente che «le criticità delle agenzie di rating sono state un ingranaggio essenziale del meccanismo di distruzione finanziaria». Nella sua analisi del caso Moody's (cui in questi giorni fischieranno le orecchie dopo il fulmine che si è abbattuto sui colleghi) aveva ricordato che nel 2008, la valanga dei downgrading a ripetizione aveva portato dallo stato di investment grade a quello di spazzatura, il 76% per cento delle emissioni di due anni prima e l'89% di quelle del 2007. Valori che non possono in alcun modo essere giustificati solo da fattori eccezionali e non prevedibili al momento in cui il giudizio era stato dato.
Il motivo fondamentale era che nell'ansia di garantirsi commissioni di tutto rispetto e di non perdere quote di mercato, le agenzie erano più che disponibili a compiacere i clienti emettendo giudizi favorevoli e dispensando a piene mani l'agognata tripla A.

Il guaio è che distorsioni di questo tipo sono ormai endemici nel sistema finanziario moderno e in particolare nelle banche di investimento, disposte a proporre e realizzare operazioni che generano cospicui volumi di commissioni per esaudire richieste dei clienti che spesso nascondono solo intenti decettivi, se non fraudolenti. Oppure a proporre operazioni che si rivelano per i clienti delle vere e proprie bombe ad orologeria. Basta guardare le recenti cronache di casa nostra, dal Monte dei Paschi alla sentenza sui derivati del Comune di Milano, per avere un'idea della rilevanza e dell'estensione dei problemi.
Il dibattito sulla riforma del sistema finanziario aveva indicato fin dalle prime battute l'opportunità di separare l'attività bancaria al servizio dell'economia produttiva (la raccolta di depositi e la concessione di prestiti) da quella di natura finanziaria. Era stato Paul Volcker ad indicare per primo questa soluzione, poi ripresa da rapporti ufficiali nel Regno Unito (Vickers) e della Commissione europea (Liikanen).

Si badi che lo scopo della separazione non è di eliminare i conflitti di interesse, ma di impedire che l'attività di carattere più strettamente speculativo possa generare perdite tali da compromettere l'attività bancaria tradizionale, interrompendo un servizio essenziale per l'economia e spesso costringendo a scaricare il costo sul contribuente. Si tratterebbe comunque di un passo avanti significativo per fare maggiore chiarezza fra due linee di business affatto diverse fra loro e anche per rendere più visibili i conflitti di interesse. Basti pensare agli accantonamenti record che le banche stanno facendo sul bilancio 2012 per probabili costi connessi alle tante cause legali in corso e che in gran parte derivano proprio dall'attività di investment banking.
Ma questa idea apparentemente semplice viene declinata in modo diverso nelle tre proposte prima ricordate e, visto che in fatto di babele regolatoria non vogliamo farci mancare nulla, viene tradotta nelle varie legislazioni in modo ancora più variegato.

Negli Usa, la "regola Volcker" è ancora in gran parte un contenitore vuoto che attende i regolamenti delle autorità di vigilanza. In rapida successione, in questi giorni i governi di Francia, Regno Unito e Germania (quest'ultima ieri) hanno presentato disegni di legge che prevedono forme di separazione dell'attività di investment banking più blande di quelle previste dai rapporti ufficiali e, guarda caso, più aderenti alle richieste delle banche nazionali. L'asse Parigi-Berlino, che tanto aveva scricchiolato nel corso della crisi, si è ricompattato come per incanto. Non a caso, nei giorni scorsi autorevoli esponenti del governo di Angela Merkel avevano assicurato che la riforma non avrebbe messo in discussione il modello tedesco di banca universale, ovviamente sorvolando sul dettaglio che quel modello ha creato non pochi problemi, come provano i casi di Dresdner Bank e Commerzbank.
Al pari delle agenzie di rating, le banche hanno dimostrato di non essere spesso in grado di perseguire al meglio gli interessi dei clienti. La separazione dell'attività al servizio dell'economia, che pure ha finalità diverse e più generali, sarebbe comunque un segnale importante e potrebbe dare un contributo di chiarezza.

Ma se le riforme si realizzano nel nome dei campioni nazionali, si rischia che nel conflitto di interessi fra banche e clienti sia deciso a priori chi deve prevalere. Persino un editoriale del Financial Times ha riconosciuto che il "recinto" fra le due forme di attività non solo è opportuno, ma dovrebbe anche essere elettrificato, come quelli per i cavalli. Ma non è questa la strada che i singoli Stati sembrano disposti a seguire. La palla a questo punto è nel campo della Commissione europea che aveva accolto con entusiasmo il rapporto Liikanen. Il processo di riforma è cominciato e questa è la buona notizia, ma come sempre nelle cose europee, grande è la confusione sotto il cielo.

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