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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:40.

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Se il bilancio rappresenta la foto di una famiglia in un interno, il flash che ieri ha fissato quella europea conferma una volta di più l'immagine dei separati in casa. Ripiegati su se stessi invece che proiettati su un futuro collettivo.
Concentrati sulla salvaguardia dei benefit di oggi invece che sugli investimenti in un domani migliore puntato su più crescita e lavoro.

Il vertice dei 28 capi di Governo dell'Unione si è concluso a Bruxelles con il taglio del 3% in termini reali degli stanziamenti per il prossimo settennato (2014-20) rispetto a quello in corso ma soprattutto con la riprova che a decidere volume, quantità e qualità delle spese e delle entrate nell'Ue non è un coerente e lungimirante progetto di vita in comune ma la semplice e disordinata sommatoria di 28 interessi nazionali in campo.
Che così fosse lo si era ampiamente già capito in 3 anni e mezzo di gestione improvvisata della crisi dell'euro. Con una coerenza che per una volta avrebbe fatto meglio a risparmiarsi, il vertice ha ribadito sul bilancio pluriennale la stessa linea. Del resto, nell'uno come nell'altro caso, a indicare la via maestra è stata la Germania rigorista di Angela Merkel.

In piena sintonia non con la Francia ma con la Gran Bretagna euroscettica di David Cameron. Ufficialmente con la scusa dell'austerità in vigore in tutta l'Unione. Di fatto in ossequio a culture di Governo sempre meno sensibili al valore aggiunto offerto dalla dimensione europea e sempre più convinti che nazionale è sempre meglio, a tutti i livelli.
E così, per rientrare negli stretti paletti fissati dall'inconsueta alleanza anglo-tedesca sostenuta dal club scandinavo, la solidarietà Nord-Sud è stata ridotta al minimo indispensabile. Unica eccezione il nuovo fondo da 6 miliardi a sostegno dei giovani disoccupati. I sussidi alla politica agricola sono stati ridimensionati ma con cautela per non spiacere troppo alla Francia, la maggiore e irriducibile beneficiaria.

Tagliato senza pietà il finanziamento alla cosiddetta "Global Europe", a una politica esterna del resto eterea e sfilacciata. Puniti gli aiuti alla sicurezza dei cittadini e gli stipendi degli euro-burocrati.
Ma quello che più colpisce nell'equazione del rigore contabile è l'apparente miopia delle scelte (in realtà deliberate). Che non hanno esitato a massacrare, nell'Europa schiacciata da recessione e disoccupazione al 12%, tutte le rubriche di spesa mirate a rilanciare crescita e competitività, a mettere l'industria Ue al passo con la concorrenza globale, che pure dall'America al Giappone, alla Cina, marcia vincente perché ampiamente foraggiata da Governi attenti alle sue sorti.

L'Europa no. Rispetto alla proposta di Bruxelles, decisa a riorientare le priorità di bilancio per aggiornarle alle nuove sfide, sono saltati ben 40 miliardi di spesa: dagli oltre 164 miliardi iniziali su 7 anni si è scesi a 125 sacrificando ricerca e innovazione, formazione e investimenti nelle reti. Cioè tutte le leve dello sviluppo nel 21mo secolo. Insipienza collettiva? Piuttosto impotenza dei Governi del sud, Italia e Francia comprese, di fronte alla rinazionalizzazione strisciante delle spese e delle politiche comuni. Nella falsa convinzione che gli investimenti dentro i patri confini rendano più di quelli fatti in Europa, perché più efficaci e meglio controllati. Dimenticando che ci vogliono massa critica e economie di scala europee per ammortizzare al meglio i mega-investimenti necessari per porsi all'avanguardia dell'innovazione globale.

Peccato che in Europa l'Europa sia sempre meno di moda non solo tra la gente ma anche tra i suoi Governi. La vecchia sindrome contabile inglese ha contagiato la Germania che vuole ancora integrazione ma sempre più a modo suo, filtrandola con il prisma dei suoi specifici interessi nazionali.
Eppure ieri tutti i Governi soddisfatti. Solo l'europarlamento, che dovrà pronunciarsi sulle decisioni del vertice, ha bocciato il mini-bilancio pluriennale: inadeguato e troppo sbilanciato tra stanziamenti annunciati e pagamenti che saranno effettivamente messi a disposizione. Sulla carta il deficit è di 52 miliardi e si aggiunge ai 16 già in essere.
Strana questa Europa che combatte a spada tratta i disavanzi nazionali ma li tollera allegramente, anzi li programma, per l'Unione. Nella segreta speranza di non far fronte, al momento buono, agli impegni presi. Questo è lo spirito di famiglia che prevale in questo scorcio di febbraio 2013.

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