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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2013 alle ore 14:17.
Il processo Abu Omar non s'ha da fare, è stata la parola d'ordine degli ultimi 10 anni, da quando l'ex imam di Milano fu rapito, trasportato in Egitto e torturato. E invece quel processo s'è fatto ed è arrivato all'accertamento della verità giudiziaria: definitivo per quanto riguarda le responsabilità della Cia, artefice ed esecutrice di quella extraordinary rendition; quasi definitivo per il concorso che a quell'operazione diedero gli ex vertici del Sismi Niccolò Pollari, Marco Mancini e altri tre funzionari.
Nonostante la gravità del fatto, che chiama in causa il rispetto dei diritti fondamentali, il governo - convitato di pietra - non è stato collaborativo ma, anzi, ha cercato di ostacolare l'accertamento delle responsabilità brandendo un segreto di Stato di volta in volta sempre più esteso e usando reiteratamente, e in modo inedito, l'arma del conflitto di attribuzioni contro ogni grado della giurisdizione (Procura, Gip, Tribunale, Corte d'appello, Cassazione). Stavolta, a due giorni dal verdetto della Corte d'appello, aveva persino chiesto - fatto ancora più inedito - lo stop immediato invocando «la tutela della sicurezza nazionale» ma di fatto per evitare l'epilogo naturale, e cioè la condanna di chi quel sequestro lo ha lasciato fare in barba ai principi di uno Stato di diritto.
Ora Pollari, all'epoca capo del Sismi, è stato condannato a 10 anni di reclusione (a 9 Mancini e a 6 Di Troia, Gregorio e Ciorra) e accusa i giudici di mancanza di «leale collaborazione tra le parti», facendo (ri)esplodere la sua rabbia anche contro il governo. Che a questo punto, sostiene, dovrebbe essere considerato «complice», ma che non è mai stato «interpellato». Una indiretta chiamata in correità dei governi di turno (Berlusconi e Prodi e poi anche Monti), che avrebbero quindi "coperto".
Illazioni? Insinuazioni? Avvertimenti? Difesa estrema? Certo è che fin dal giorno del suo rinvio a giudizio Pollari scelse questa strategia: far sapere che si trovava di fronte a un bivio, difendersi raccontando oppure difendersi con l'ausilio del segreto di Stato. Ventiquattr'ore dopo, il governo sollevò il primo conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta per stoppare l'accertamento delle responsabilità o renderlo comunque indolore per gli agenti segreti italiani. A nulla valsero le denunce e i richiami dell'Europa a non ostacolare il percorso della giustizia: il segreto di Stato è ed è rimasto sulla scena processuale pronto ad essere eccepito, in forma più o meno estesa, ad ogni snodo cruciale. Finché la Corte di cassazione, a novembre scorso, ne ha definito l'ambito fisiologico, annullando il precedente proscioglimento guadagnato nel frattempo dagli 007 italiani e aprendo la strada a un appello bis. Che si è concluso con la condanna odierna.
Non è ancora l'approdo finale, e c'è da aspettarsi di tutto, compreso un totale ribaltamento nei confronti degli imputati, americani compresi. E non già sulla base di nuove prove o di una diversa valutazione di esse, come pure sarebbe fisiologico; ma solo perché per gli 007 italiani la partita sul segreto di Stato è ancora aperta e per gli americani non si escludono colpi di scena legati a questioni puramente formali, come le modalità di notifica degli atti, funzionali però ad azzerare più o meno tutto.
Ma qual è, ad oggi, la verità giudiziaria accertata? Fu un commando della Cia a decidere ed eseguire il sequestro. Per quell'operazione sono stati condannati definitivamente dalla Cassazione, lo scorso novembre, 23 agenti segreti, a pene che vanno da 10 a 7 anni. Il governo Monti, però, non ne ha chiesto l'estradizione, non perché (come pur rientra nelle sue facoltà) riitiene di non dover dar corso alla richiesta per motivi politici, ma sulla base di cavilli giuridici contraddittori. Non sono ancora definitive, invece, le condanne inflitte in appello il 1° febbraio all'ex capo della Cia in Italia Jeff Castelli (7 anni) che era stato prosciolto in primo grado per l'immunità diplomatica insieme ad altri due 007 (condannati a 6 anni).
La svolta è avvenuta in Cassazione, che ha fra l'altro annullato il proscioglimento di Pollari, di Mancini e degli altri 007 italiani deciso in primo e secondo grado perché il governo aveva fatto calare il sipario nero del segreto di Stato. Un sipario parzialmente rialzato dalla Corte, che ha perciò consentito, nel processo di appello bis, di acquisire documenti, intercettazioni e altro materiale probatorio da cui risulta il coinvolgimento degli agenti italiani, perciò condannati.
In vista di questa inevitabile condanna, il governo Monti ha giocato il tutto per tutto e venerdì notte ha deciso di correre di nuovo alla Consulta per denunciare Cassazione e Corte d'appello, "colpevoli" di aver ristretto il segreto di Stato. Che a quanto pare dal ricorso dell'Avvocatura dovrebbe coprire tutto, ma proprio tutto, non solo i rapporti tra Cia e Sismi. La Cassazione è addirittura accusata di aver leso «il potere di sicurezza dello Stato». Il governo sa che fino a quando la Consulta non dichiara almeno «ammissibile» il conflitto, questo non esiste neppure giuridicamente. Perciò ha spedito direttamente alla Corte di Milano il ricorso, con tanto di richiesta di sospendere subito il processo. Una richiesta bizzarra, che il collegio di Milano non ha preso in considerazione né avrebbe potuto farlo se non forzando le regole del gioco, che in questa delicata partita sono già state forzate tante volte. Non abbastanza, però, per impedire di accendere un po' di luce sulla vicenda, che non onora l'Italia. Ora la partita si sposta di nuovo in Cassazione per la parola fine, sempre che nel frattempo la Consulta non si faccia carico delle "ragioni" del governo e annulli di fatto la verità accertata finora.
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