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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2013 alle ore 17:09.

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Nella foto il re Vittorio Emanuele II (1820-1878) viene applaudito alla prima seduta del Parlamento nazionale italiano presieduto da Cavour il 18 febbraio 1861. Illustrazione tratta da un album sulla storia del Risorgimento fatta per il cioccolato Talmone, chromolithografia, Collezione Privata (Alinari)Nella foto il re Vittorio Emanuele II (1820-1878) viene applaudito alla prima seduta del Parlamento nazionale italiano presieduto da Cavour il 18 febbraio 1861. Illustrazione tratta da un album sulla storia del Risorgimento fatta per il cioccolato Talmone, chromolithografia, Collezione Privata (Alinari)

«Voi andate ai balli di Corte; voi partecipate a taluni pranzi diplomatici, a certi banchetti nelle grandi occasioni. Voi siete invitati a tutte le feste. Voi viaggiate gratuitamente. Voi non pagate le spese di posta. La vostra medaglia in oro è un passa-pertutto, generalmente rispettato. Voi non potete essere giudicati, per tutto il tempo che dura la sessione (…). Voi avete un palazzo principesco per andarvi a leggere i giornali, parlare, fumare; (…).

Le ballerine del Teatro Regio sono ghiotte di deputati, perché avete la riputazione di gente ricca e non taccagna…». Le solite storie sui deputati privilegiati? Le solite storie davvero, perché siamo nel 1861, anno d'apertura del primo Parlamento unitario, e a parlare è una signora della buona società ne I moribondi di Palazzo Carignano, di Ferdinando Petruccelli della Gattina, deputato autoironico, all'epoca accusato di aver definito i colleghi partenopei «uno stuolo di imbecilli e di furfanti».

Tra quell'anno e gli inizi del XX secolo, incoraggiati da un pubblico curioso delle nuove istituzioni, vengono pubblicati molti "romanzi parlamentari" o comunque dedicati alla politica, alcuni di autori oggi ancora noti come Matilde Serao (La conquista di Roma, 1885) e Federico de Roberto (L'imperio, scritto negli anni Novanta) anche se la maggior parte, nonostante il successo ottenuto all'epoca, è opera di scrittori dimenticati.
Ma il tratto comune è evidente: i politici sono considerati decisamente male.

L'antipolitica, insomma, nasce con la politica, che già all'alba del nuovo Stato si affida a persone forse un poco distanti dagli ideali risorgimentali. I cittadini leggono quindi con avidità, complice il naturalismo trionfante, invettive vere e proprie. Come quella del neo deputato Guidi (I misteri di Montecitorio, 1886, di Ettore Socci), che definisce «imbroglione, ciurmato in tutte le forme» un collega che cerca di farselo amico e che appartiene a «una vera schiera di soldati di ventura. La loro proclamata indipendenza è il più bel sistema per sgranare ogni giorno qualche cosellina.». Davvero non vi viene in mente nessuno?

Montecitorio, però, valeva bene una messa: in Fidelia di Arturo Colautti (1884, all'epoca un successone di vendite) il laicissimo onorevole De Marchis cambia partito per essere rieletto. Adesso, quindi, deve recarsi in chiesa: «Bisognava vederlo, l'ex mangiatore di preti, durante il sacrificio mistico! Genuflesso, raccolto, contrito, il capo tra le mani congiunte, pareva un fabbriciere piuttosto che un deputato».

Una visione più cupa sembra sorgere dall'invettiva di un deputato onesto (in L'ultimo borghese di Enrico Onufrio, 1885) che profetizza ai colleghi un vile nascondersi tra le gonne delle ballerine al momento della rivoluzione sociale. E del resto «La Camera è vigliacca!» proclama l'onorevole Oldofredi in La conquista di Roma, bravamente sfidato dal protagonista, l'onorevole Sangiorgio, che dopo poche pagine, però, si dichiarerà sconfitto e consapevole dell'inutilità della lotta politica. Peccato veniale, del resto, questa disillusione, perché, dice l'onorevole Dalma «In politica tutto si dimentica».

Le risse in Aula non sono, poi, una novità: «(…) gli onorevoli si apostrofavano dai banchi, scendevano minacciosi nell'emiciclo stringendo i pugni, agitando le braccia a guisa di forsennati» ci racconta Enrico Castelnuovo (L'onorevole Paolo Leonforte, 1894) .

Queste letture generano una certa angoscia, però, non tanto per gli innumerevoli déjà vu di questi esordi parlamentari quanto per i loro esiti: «Le idee si equivalgono», spiega sereno l'onorevole di Francalanza ne L'Imperio e il collega Leonida, ne Le ostriche di Carlo Del Balzo (1901) pesta ancora più duro: «Sollevarsi in quell'ambiente, in cui l'intrigo è abilità politica, il fingere è previdenza di governo, e il mancare agli impegni alta sapienza di Stato, è il dover nostro».

È facile concludere che la solita la ricetta salvifica, cucinata da Alcibiade, Publio Clodio, Napoleone, Guglielmo Giannini, Beppe Grillo o da tanti altri, piacesse allora come adesso: se questi sono i partiti, allora facciamone a meno, come di fatto suggerivano allora Oriani e D'Annunzio o, su un fronte opposto, Simone Weil nel 1943 (lo ricordava il Sole 24 Ore lo scorso 29 luglio). E perché no? Magari riunendoci in un'agorà permanente televisiva o telematica, versione capovolta del Grande Fratello, dove non dovremo più vergognarci di coloro che abbiamo liberamente eletto.

Del resto l'occasione è propizia per tutti, come sembra suggerire ancora oggi la rivista L'Asino nel 1893, dopo lo scandalo della Banca Romana, in una vignetta dove un deputato, nell'imminenza dello scioglimento delle Camere, dice a un collega: «Già, non c'è che da scegliere: o l'ozio forzato… o i lavori forzati!».

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