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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2013 alle ore 07:54.

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Chissà che la determinazione di Barack Obama non ci faccia prendere contezza di quanto possa davvero servire oggi al mondo un'Italia in crescita. E di quanto possa essere utile, alla produttività di sistema e alla competitività del Paese, investire in ricerca per le Pmi (e non solo).

Speriamo che sortisca almeno l'effetto indotto nel '94 dalla curiosità di Bill Clinton al G-7 per il modello di distretti industriali che il provincialismo di certo establishment italiano, da quel giorno, cominciò a considerare come vincente dopo averlo ignorato per decenni.
Il presidente Obama, oltre a spronare l'Italia sulle misure per la crescita, ha rilanciato con grande forza, prima del G-20 e alla vigilia dell'incontro con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il suo piano di massicci investimenti in ricerca per aumentare la competitività (e la sostenibilità) del sistema manifatturiero Usa, soprattutto per le piccole imprese. La svolta "rooseveltiana" di Obama guarda alla produttività dell'economia reale dopo le sbornie della turbofinanza, con la consapevolezza che il nuovo driver del rilancio non può che essere l'industria manifatturiera.

In questa fase di tragica surplace pre-elettorale, invece, per l'Italia solo cattive notizie: un Pil declinante oltre ogni aspettativa (2,7% tendenziale a dicembre 2012) e l'ennesima bocciatura, stavolta dall'Ocse, della strategia usata finora per affrontare il tema lavoro. In un Paese "a credito", dove lo Stato non paga i fornitori per circa 100 miliardi, e dove la stretta creditizia non consente compensazioni o escamotage per traghettare le aziende da un presente in tempesta a un futuro auspicabilmente di mare calmo, il monito dell'Ocse sugli errori fatti sul lavoro assume un valore tragicamente amplificato. La protezione di stampo prettamente "giuslavorista" del posto a discapito del reddito – dicono gli economisti di Parigi – ha creato solo iperregolazione e scarsa produttività che oggi paga tutto il sistema. La riforma Fornero, che in un primo tempo aveva come obiettivo quello di disboscare proprio quelle norme, ha ottenuto in realtà l'effetto contrario: l'aumento di vincoli alla flessibilità in entrata ha indotto le imprese a sospendere le assunzioni di personale a tempo (stop a contratti a termine e a contratti a progetto) e l'avvitamento che il Parlamento ha prodotto sul nuovo articolo 18 non ha garantito quella flessibilità in uscita che era anch'essa obiettivo primario della riforma del lavoro

L'Italia ha perso così la flessibilità in entrata (per quanto caotica) e non ha acquisito quella in uscita. In estrema sintesi è questa la diagnosi dell'Ocse che invita a proseguire nel cammino delle riforme. È quantomeno triste, poi, sentire che ancora adesso il problema dell'Italia è il dualismo del lavoro tra insider e outsider: è stata per mesi la diagnosi-guida della riforma Fornero, ma è evidente che il risultato di armonizzazione non è arrivato. E non solo per le differenze tra chi è nel fortino delle protezioni e chi è fuori nelle praterie del sommerso o del semi-sommerso, ma anche per le distanze tra settori che hanno investito in innovazione e settori destinati a soccombere, tra comparti fermi al mercato interno (stagnante) e comparti strenuamente affidati all'export dove l'Italia diventa subito eccellenza. Per non parlare delle due Italie, quella del Nord con un Pil ancora "bavarese" e tassi di disoccupazione comunque gestibili e quella del Sud degli sprechi dei fondi Ue e della ripresa dell'emigrazione. Per i giovani che restano una prospettiva di rimanere a lungo senza lavoro al 50%, un deserto di idee-Paese, il pubblico impiego come unico datore di lavoro (quando non lo è la mafia). Per 3,6 milioni di ragazzi non c'è studio e non c'è lavoro, solo una gigantesco fenomeno – unico in Europa – di spreco di talenti e capitale umano.

In realtà il non-lavoro dell'Italia 2013 conosce una nuova sottocategoria in rapida crescita: quella di chi l'impiego lo ha perso o lo sta perdendo. Ieri il ministro Elsa Fornero ha firmato i 13 provvedimenti per lo sblocco della cassa integrazione in deroga. I beneficiari andranno a ingrossare le fila dei cassintegrati ordinari e straordinari o dell'edilizia per i quali il ricorso alle ore di assistenza al reddito è aumentato del 60%. Il rischio è che a fianco dello stock del mezzo milione di esodati, il cui destinato è affidato al prossimo Governo, si vada a creare uno stock (sono già mezzo milione) di ultracinquantenni senza lavoro e senza ammortizzatori sociali, colpiti dalla recessione. Per loro il termine di «politica attiva» deve diventare concreto e tradursi in progetti seri di riqualificazione e reinserimento. Con un unico obiettivo: ritrovare lavori veri. Si può fare solo se il Paese riparte e scommette sull'innovazione e sui settori a più alta produttività. Proprio come dice l'Ocse. Proprio come dice Obama.

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